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Sinodo, Frigeni (Brasile): parlare la lingua indigena per inculturare il Vangelo

Il vescovo di Parintins, nell’Amazzonia brasiliana, monsignor Giuliano Frigeni, è convinto che “questo Sinodo ci da’ la possibilità di arrivare al cuore della cultura indigena” ma per farlo dobbiamo conoscere le loro lingue “per valorizzare il positivo delle loro culture e arricchirlo col Vangelo”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

La sua diocesi, Parintins, è nel cuore dell’Amazzonia, e si stende interamente nella foresta, tra gli affluenti del Grande Fiume che danno alimento a cinquecento comunità e ai villaggi del popolo indigeno Sateré-mawé. Monsignor Giuliano Frigeni è un missionario del Pime nato a Bergamo 72 anni fa, da quaranta in Brasile e da venti vescovo di Parintins, che in 68 mila chilometri di territorio racchiude 230 mila fedeli, che fanno riferimento a 10 parrocchie. Nei lavori del Sinodo speciale per l’Amazzonia, che si avviano alla conclusione, coglie la tensione di una vera apertura della Chiesa ai popoli indigeni, per arrivare all’annuncio evangelico attraverso l’ascolto.

Ascolta l'intervista a monsignor Giuliano Frigeni

R. – Questo Sinodo insiste molto sui popoli indigeni, non perché siano la maggioranza, ma perché in questi quattrocento, cinquecento anni, hanno avuto molte difficoltà nel capire il nostro annuncio, anche perché noi stranieri non riusciamo ad entrare profondamente nella loro cultura. E dopo il Concilio, con certezza, è nato tutto un lavoro nuovo di missione, una presenza nuova. E il Papa ora insiste, con questo Sinodo, sulla necessità di non omettere l’annuncio esplicito, ma passando attraverso questa sinodalità che è il frutto dell’ascolto. Lui stesso ci ha dato l’esempio a Maldonado dove è andato in vari posti, ascoltando con attenzione il desiderio, il grido che c’è dentro queste culture che hanno già – come dice il Concilio – le sementi della Parola di Dio, del Verbo di Dio, dello Spirito che agisce. Questo Sinodo ci dà la possibilità di arrivare al cuore della cultura indigena, per fare in modo che si arricchisca veramente della novità del Vangelo, della novità della presenza di Cristo che è venuto non per uniformare, ma per unire le diversità.

Si pensa addirittura anche ad un rito amazzonico, non so come faremo perché sono tanti popoli diversi, ma è già un’indicazione di come il Vangelo passa attraverso l’incarnazione, l’imparare profondamente le lingue. Qui abbiamo bisogno di missionari, anche locali. Nella mia diocesi, per esempio, c’è un padre che parla proprio la lingua degli indigeni. Noi, che veniamo dall’Europa, non ci siamo dedicati tanto, anche perché di 230mila cristiani della mia diocesi, sono 10mila quelli che parlano questa lingua. Quindi si dice: “Molti giovani vengono in città, studiano, imparano il portoghese” e si ha l’illusione di capirsi, mentre invece sappiamo molto bene che non imparando la loro lingua, rimaniamo un po’ alla superficie della loro cultura e il Vangelo diventa solo ripetere certe nostre affermazioni o certi nostri atteggiamenti e non invece valorizzare ciò che di positivo c’è nella loro vita, nella loro cultura e arricchirlo con il Vangelo.

Nella bozza del documento finale che state discutendo, il cardinale Hummes parla molto spesso di conversione. Quale conversione è necessaria per la Chiesa in Amazzonia?

R. – Ognuno di noi dove è, con i popoli, sia indigeni, autoctoni o anche quelli che fanno già la vita della città, (più della metà degli abitanti dell’Amazzonia abitano in città) ha una pastorale indigena e urbana da rispettare e da capire. Poi c’è una pastorale che va a visitare le comunità e bisognerebbe passare da questo ad avere una presenza più continua. Nella mia diocesi facciamo questo attraverso l’esperienza degli uomini mariani, 1200 uomini che ogni anno facevano gli esercizi spirituali, perché la congregazione mariana è frutto dei gesuiti. Più di 300 anni di storia! Dobbiamo continuare a coinvolgere magari le famiglie che fanno un lavoro missionario e che generano nella loro famiglia le vocazioni anche al sacerdozio. I figli di queste famiglie sono i miei nuovi sacerdoti. In questi venti anni ho avuto la grazia di consacrare 20 giovani di quell’area. Ci vuole un’evangelizzazione che arrivi nella famiglia, nell’uomo, nella presenza continua. Nel documento si discute molto anche delle equipe itineranti. I miei sacerdoti, ad esempio, non vanno mai da soli; portano il catechista, la catechista, chi canta nella Liturgia … Insomma, loro stessi stanno cercando una forma diversa.

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22 ottobre 2019, 15:12