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Martinelli: in Arabia per costruire fratellanza

Il nuovo vicario apostolico dell’Arabia del Sud racconta l'impegno di edificare una "Chiesa dalle genti" e sottolinea che la fraternità non è ridurre l'altro a pedina di un progetto personale, ma riconoscere che l'altro è un portatore di differenza da accogliere per un bene condiviso. La religione non va mai strumentalizzata - insiste - e deve sempre essere via di riconciliazione. E chiosa: "Porterò con me la mia chitarra e il desiderio di cantare"

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Un passaggio di testimone che resta nell'ambito della famiglia francescana. E' quello che riguarda la guida pastorale dell'Arabia meridionale dove monsignor Paul Hinder lascia l'incarico di vicario apostolico per raggiunti limiti di età: gli seguirà monsignor Paolo Martinelli, vescovo ausiliare di Milano. Nella nostra intervista, le prospettive di lavoro nel solco del Documento sulla Fratellanza umana e della Fratelli tutti.

Ascolta l'intervista con monsignor Paolo Martinelli

Un anno e mezzo nella sua Milano, tra le diocesi più popolose del mondo. Che effetto le fa passare da un luogo ‘familiare’ a una terra in cui i fedeli cattolici sono una esigua minoranza?

È un cambiamento molto forte, ma vorrei dire che il senso per cui viviamo in realtà è sempre lo stesso. Così come sono stato mandato qui a Milano, mi preparo ad andare negli Emirati Arabi Uniti perché Papa Francesco mi ha mandato. Ciò che accomuna è che siamo stati inviati a vivere una missione, una presenza, a condividere la bellezza del Vangelo. Poi, devo dire, che trovo anche un elemento comune: noi in questi anni stiamo lavorando per creare una Chiese sempre più “dalle genti”, che valorizzi le diversità - qui a Milano i migranti sono veramente tanti – e adesso vado in una Chiesa che è fatta completamente di migranti. Anche alla luce della tanta insistenza che Papa Francesco ha fatto in questi anni su questo tema, sento che è una cosa che mi dà tanto entusiasmo, muove molte energie dentro di me. C’è un grande desiderio di camminare con loro e, con loro, incontrare tanta gente che appartiene a culture e religioni diverse.

Lei è in procinto di stare accanto a una comunità di fedeli per lo più migranti per lavoro dai Paesi asiatici. Nel contempo, sarà necessario mantenere vivo il dialogo tra le fedi. Ha già qualche ipotesi di lavoro che vorrebbe approfondire?

La pista più importante ce l’ha data proprio Papa Francesco quando tre anni fa è andato proprio lì e ha firmato il Documento sulla Fratellanza umana e la convivenza comune. Credo sia un documento profetico che ci dà la direzione di un dialogo a 360°, con i fedeli dell’islam. Poi c’è l’enciclica Fratelli tutti, che io porto nel cuore anche perché il riferimento a San Francesco è molto forte; mi fa sentire che davvero la prospettiva è percorribile, quella dell'incontro, di cammino condiviso.

Ma se è percorribile, perché la fratellanza – se guardiamo alla guerra in Ucraina e alle guerre in corso in varie parti del mondo – fa così fatica ad affermarsi nelle relazioni tra i popoli?

Innanzitutto, la Bibbia ci rende avvertiti per cui se noi pure abbiamo una vocazione alla fratellanza, questa non è semplicemente qualcosa di naturale, immediato, spontaneo. La fratellanza chiede un cammino, di conversione, di uscita da sé. Vuol dire non stare noi al centro del mondo, ma mettere al centro le relazioni. Dice che il rapporto tra fratelli può essere anche molto violento, quindi ha bisogno di essere aperto a un amore più grande. Certamente, per noi cristiani ogni rapporto di fratellanza parte dal riconoscimento che siamo tutti creature di Dio, voluti da un unico Padre. Questo pone per noi un principio radicale che rimane vero anche quando non viene riconosciuto dagli altri. Non è una fratellanza generica, un riconoscere l’altro come uno specchio, una fotocopia in cui ritrovo solo la mia immagine, ma accorgersi del bene che è l’alterità. Non come una proiezione mia che posso dominare. É un lavoro, la fratellanza. Un lavoro diuturno, è costruire vita buona, condivisa. Soprattutto è questo passaggio a riconoscere l’altro perché è altro, portatore di differenza, non di qualcosa che io so già. É in fondo, anche l’attrattiva che ci mette in moto. Conoscere l’altro porterà anche a conoscere ancora un poco di sé, e di Dio, che è qualcosa di sempre più grande delle nostre immagini; quel Dio che si fa sempre di più imparare dentro le relazioni che ci fa vivere.

Guardando in controluce alla attualità internazionale, come liberare la saldatura degenerata che alle volte matura tra religione e potere politico?

Papa Francesco anche qui ci ha detto le cose fondamentali nell'enciclica Fratelli tutti, laddove scrive come le religioni hanno il compito di promuovere vita buona e in cui attacca ogni tentativo di strumentalizzare una religione per esercitare un potere e una violenza sull’altro. E’ un aspetto su cui il Papa è veramente indomabile. La religione deve essere intesa come via di bene e riconciliazione, sempre in virtù del fatto che l’altro non è qualcosa che posso piegare ad una mia idea. Occorre custodire questo elemento originario dell’esperienza religiosa.

Lo Yemen è citato più di una volta dal Papa anche nella intervista appena rilasciata al Corriere della Sera. Paese da anni segnato dalla guerra e dal commercio di armi, fattore, questo, che proprio Francesco considera il movente e l’effetto, allo stesso tempo - come in una perversa spirale autodistruttiva – dei conflitti. Come disinnescarlo?

Questo è il nodo che Papa Francesco mette in evidenza. É una realtà che fa penare molto, ci addolora. Pensare ai tanti anni di conflitto sostanzialmente ignorato dalla comunità internazionale. Dobbiamo dare atto al Papa di aver sempre sottolineato l’importanza di cercare di fare tutto il possibile per affrontare questo conflitto che provoca disagio e morte senza una prospettiva di bene. Come uscirne è molto complesso da dire; è qualcosa che può venire dall’alto ma anche dal basso. C’è bisogno di rompere degli schemi, degli interessi che si autoalimentano, ma c’è anche bisogno di favorire, dal basso, incontri significativi; c'è bisogno di far capire come le diverse culture possano, nonostante le tensioni, confrontarsi proprio mettendo a tema il bene comune. Ogni realtà etnica e religiosa deve concepirsi insieme. Noi non possiamo evitare la drammaticità del rapporto tra i popoli. E allora io penso che dobbiamo lavorare da un lato, secondo le vie diplomatiche, dall’altro costruendo la cultura dell’incontro.

 

Le donne, la cittadinanza sono temi su cui il Documento di Abu Dhabi ha mostrato di essere lungimirante e innovativo, nella direzione di una tutela sempre maggiore dei diritti umani. Quale strada crede si possa e si debba perseguire per una loro piena affermazione nel rispetto delle religioni e delle culture?

Qui la strada che viene aperta è quella del riconoscimento elementare del diritto inalienabile di ogni persona. Sono realtà che vanno promosse non per una generica benevolenza, ma perché si riconosce il carattere originariamente buono per cui ogni creatura è sognata da Dio. Riconoscere il bene sacro che ogni persona ha in se stesso. L’altro è portatore di un mistero che io devo rispettare e che non posso ridurre a pedina di un mio progetto. Una civiltà rinasce quando riconosce il bene che l’altro è a priori, su cui io non posso mettere le mani.

Dal 2021 lei presiede la Commissione Cei per il clero e la vita consacrata. Quale il suo auspicio per i sacerdoti e i religiosi che sono in Italia e quale per gli operatori pastorali in queste altre aree del mondo, diciamo, più ‘scoperte’ in termini di numero di persone impegnate nella diffusione del Vangelo? Cosa suggerisce per entrambe le realtà?

È stata una esperienza breve ma intesa, bellissima soprattutto nella formazione dei futuri presbiteri. Mi sembra di aver notato come ci sia un bisogno di valorizzare i carismi. La bellezza di aver fatto esperienza di vita consacrata interculturale mi hanno fatto vedere una Chiesa come in un laboratorio, come si impara a vivere insieme. Una cosa importante dal punto di vista pastorale ma anche sociale. E’ una profezia interessante. Si può fare. E’ qualcosa che incontrerò in modo molto ampio nel Vicariato in Arabia.

Porterà con sé un oggetto che le è particolarmente caro?

La mia chitarra. Amo molto la musica, la canzone, che ho usato molto anche nella mia azione pastorale. Porto con me il desiderio di cantare, anche nelle diverse lingue. Forse sarà anche uno strumento per condividere la gioia di essere fratelli e sorelle. Penso che il Cantico delle creature che ha pensato quel genio spirituale di San Francesco mi farà molta compagnia.

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04 maggio 2022, 09:30