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Fumo nero durante un bombardamento su Gaza Fumo nero durante un bombardamento su Gaza  (AFP or licensors)

Tomasi: le guerre hanno derive impreviste, chiedono risposta nuova e urgente

L’osservatore permanente emerito della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra riflette sul clima globale che investe il pianeta, in particolare sui conflitti in Ucraina e Terra Santa: le armi distruggono peggio di quello che si crede, quelle atomiche renderebbero la terra un deserto. Come detto dal Papa, l’opzione più ragionevole sarebbe “passare da una mentalità di terrore a una mentalità di fiducia”

Deborah Castellano Lubov - Città del Vaticano

“C’è troppa indifferenza riguardo al fatto che il disarmo sia necessario. Le conseguenze del non-disarmo sono talmente pericolose che diventa una necessità e una responsabilità esserne informati. Infatti, l’ipotesi che possano essere usate alcune delle armi atomiche - come è stato minacciato - lascerebbe il pianeta deserto, e non sappiamo nemmeno per quanto tempo”.

È una delle considerazioni fatte nel corso di un’intervista ad ampio spettro a Vatican News dal cardinale Silvano Maria Tomasi, l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra dal 2004 al 2016, per decenni impegnato nel lavoro diplomatico della Santa Sede e anche delegato speciale presso il Sovrano Militare Ordine di Malta fino al primo novembre 2020. Analizzando il pericolo incombente causato dal contesto attuale, e partendo dalla sua ampia esperienza, il porporato riflette su approcci alternativi per raggiungere la pace e ribadisce la necessità di un dialogo ragionevole e di una nuova impostazione della bussola morale “che ormai si è rotta”.

Il cardinal Tomasi sottolinea anche che mentre la violenza in tutte le sue forme genera disastri, la distruzione provocata da armi atomiche, i danni imprevedibili ai civili e la distruzione dell’ambiente siano molto peggiori e per questo simili ordigni “non possono essere accettati”.

Accogliendo l’appello appassionato di Francesco per il disarmo, il cardinale Tomasi osserva che “il Papa svolge il ruolo della coscienza dell’umanità, e lo fa in modo molto articolato e forte”. “Mi sembra - dice - che in questo momento egli rappresenti l’unica voce ragionevole nella discussione di questo problema”.

Papa Francesco ha ribadito più e più volte che stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi. In termini simili, il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha detto recentemente che “non possiamo, non dobbiamo diventare indifferenti alle sconvolgenti e ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario e umano” e ha chiesto alle istituzioni delle Nazioni Unite di operare come un corpo unico per prevenire, identificare e rispondere alle violazioni dei diritti umani. In base agli anni di esperienza alle Nazioni Unite e nella sua carriera di diplomatico, come definirebbe il “clima” generale, arrivati a questo punto? Quanto è pericoloso tutto quello a cui stiamo assistendo?

C’è troppa indifferenza nei riguardi di quanto sia necessario il disarmo. Le conseguenze di un non-disarmo sono così pericolose, che oggi è una responsabilità esserne informati. In effetti, l’ipotesi che possano essere usate - come è stato minacciato - alcune armi atomiche lascerebbe questo pianeta un deserto e non sappiamo per quanto tempo.

Ciò posto, si impone una decisione morale, e cioè che sarà assolutamente necessario bandire qualsiasi arma di cui non conosciamo gli effetti, mentre i difetti che già conosciamo confermano la loro natura incredibilmente pericolosa. La famiglia umana non conosce le conseguenze che il potenziale uso di queste armi possano causare ed è per questo che non possiamo accettarle. Tutto questo crea un clima di paura e di tensione. Per questo sarà necessario educare l’opinione pubblica, creare una cultura collettiva consapevole delle drammatiche ripercussioni della guerra. La violenza genera disastri ovunque, ma la distruzione causata dalle armi atomiche è peggiore. Proprio per questo è importantissimo che facciamo il possibile per sensibilizzare il cittadino medio a questo fenomeno.

Guardando alle guerre in corso, in modo particolare al conflitto in Terra Santa e alla guerra in Ucraina, lei vede una strada pacifica per porre fine ai conflitti piuttosto che i bombardamenti continui? Dalla sua esperienza decennale all’Onu, ha potuto verificare un approccio che possa servire oggi da esempio? Ci sono strumenti, misure o modelli che non sono ancora stati sperimentati e che dovrebbero esserlo?

Lei tocca un capitolo che è di complessa e difficile articolazione, ma è fondamentale imparare dal passato. La Prima Guerra mondiale ha provocato un numero enorme di vittime, un fatto che oggi dovrebbe farci riflettere sull’uso della violenza e delle armi. La giustificazione che queste armi siano usate per l’autodifesa solleva nuovi interrogativi, come ho detto prima. Anche se una nazione sovrana ha il diritto di difendere il suo popolo - con la prospettiva che l’uso di armi potrebbe uccidere molte più persone e distruggere l’ambiente - le parti in causa dovrebbero considerare attentamente il loro agire. Se nello sforzo di difendere tutto va perduto, cosa rimarrà poi da difendere? Noi non conosciamo tutte le conseguenze, tutti i danni che potranno essere arrecati, e per quanto tempo dureranno. Non conosciamo il numero di vittime civili che potrebbero rimanere coinvolte. L’opzione migliore e quella più ragionevole sarebbe di passare da una mentalità di terrore a una mentalità di fiducia.

Questa opzione è quella auspicata nell’ultimo Angelus da Francesco. Secondo lei in che modo l’appello del Papa potrebbe essere realizzato in concreto?

Il Papa sta svolgendo il suo ruolo di coscienza dell’umanità in modo molto articolato e forte. Mi sembra che l’unica voce ragionevole che si levi in questo momento per affrontare il problema del disarmo, delle guerre piccole o grandi, sia quella di Papa Francesco, che sta rendendo un grande servizio alla famiglia umana. Mettendo in risalto le conseguenze di tutte le decisioni politiche che scelgono la via della guerra, il Papa cerca di evitare che possa capitare qualcosa di terribile, insistendo continuamente su quanto sia necessario che le persone si siedano intorno a un tavolo e dialoghino, che usino la strategia della diplomazia o l’approccio del comune buon senso al dialogo. Oggi io non vedo alternative alla necessità del dialogo. Tutti gli altri mezzi che sono stati usati si sono dimostrati inefficaci, anzi più pericolosi ancora di quanto previsto. Ecco perché non dobbiamo sorprenderci né infastidirci se il Papa torna sempre sull’urgenza del dialogo in luogo della violenza.

Dopo le guerre del XX secolo ci sono state, secondo lei, lezioni che abbiamo imparato e poi dimenticato? C’è stato qualche risultato che dovrebbe essere ricordato o messo in pratica nel contesto attuale?

Il miglior risultato sarebbe quello che non dimenticare, perché è facile dire che qualcosa appartenga ormai “al passato”, che “le vittime sono del passato, la distruzione è del passato”. Gli aspetti economici e le relazioni distrutti nelle guerre fanno sì che le persone perdano il senso dell’etica e della morale. Oggi la bussola morale è rotta. Quello che abbiamo imparato dalle guerre recenti è che ne risultano conseguenze impreviste e imprevedibili. Oggi è in atto una guerra simile, ma la consapevolezza del danno causato alle generazioni future non è assolutamente messo in conto.

La voce morale del Papa nel contesto internazionale è quello che rimane della sanità mentale della famiglia umana, quando cerca di venire a patti con i problemi che ci troviamo ad affrontare. Ci sono aspetti che richiedono analisi e discussioni serie, che coinvolgono diversi Paesi e diversi popoli. E questo è un fatto. Ma la risposta da dare non è l’uso immediato della forza, quanto più un invito dettato dal buon senso: quello di parlare.

Nel 2023 la spesa globale per gli armamenti è aumentata del 9%. Dall’agenda dell’Onu per il disarmo si riconosce uno stretto collegamento tra investimenti in armi e guerre. Le guerre in Ucraina e nel Medio Oriente hanno indotto un forte spostamento degli investimenti verso il settore della difesa. Le spese globali dei governi per le armi hanno raggiunto 22 miliardi di dollari, e questo significa che la spesa globale per le armi ha raggiunto il 22 per cento del Pil mondiale. Oltre 71 banche etiche hanno chiesto al sistema finanziario di cambiare l’approccio e garantire che gli investimenti tengano in conto i principi della finanza etica. Questo impegno e questo concetto etico possono contribuire a innescare una riconsiderazione del guadagno ottenuto con la vendita delle armi?

Ho partecipato alla Conferenza sul disarmo delle Nazioni Unite, in cui molte sessioni erano state dedicate alla ricerca di vie utili e pratiche per evitare di arrecare danni a chiunque nel mondo. Ma non ha funzionato. Non esiste volontà politica disposta a evitare la perdita di risorse, denaro o tempo, né a investire nella lotta allo spreco di vite umane. Se ci guardiamo intorno vediamo che ci sono tanti bisogni sociali: in particolare, in molti Paesi c’è necessità di scuole affinché l’istruzione possa dare la possibilità a questi popoli di svilupparsi e usare i loro talenti in maniera costruttiva. Purtroppo sono grandi cifre in denaro, tanta tecnologia e tante vite umane che vanno persi perché si cerca il confronto violento piuttosto che un negoziato ragionevole. Ed è un prezzo davvero troppo alto da pagare. Mi pare, anche se non conosco le cifre esatte, che sarebbe ragionevolmente facile utilizzare il budget impiegato in armi e guerre per creare un fondo internazionale che possa essere utilizzato a scopo di sviluppo, per aiutare i Paesi e anche le popolazioni lasciate indietro, che non hanno accesso alla sanità, all’istruzione e alla tecnologia e che potrebbero invece usufruire di queste risorse. Potrebbe aiutare gli svantaggiati a risollevarsi dando loro la possibilità di condurre uno stile di vita decoroso. Potrebbe contribuire a risolvere il problema delle carestie e rappresentare una tutela da potenziali pandemie e dalle malattie che ne deriverebbero.

Le drammatiche guerre in Ucraina e in Terra Santa hanno richiamato l’attenzione del mondo, eppure il Papa, accanto agli appelli incessanti per entrambe, ricorda sempre i conflitti dimenticati, in particolare in Myanmar, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, tanto per citarne alcune. In quali condizioni la stabilizzazione delle priorità a livello globale lascia le altre nazioni che soffrono? Cosa bisogna fare per garantire che non siano “dimenticate” e che siano tenute tra le priorità nello sforzo per la pace, o quantomeno tutelate nella protezione dei diritti e della dignità umani?

Sembra ci sia una categoria di Paesi che contano e altri no. Ma gli esseri umani sono importanti per se stessi, indipendentemente da dove vengano o dove si trovino. Questo è vero. L’ho visto chiaramente quando sono stato nunzio in Etiopia e in Eritrea. La comunità internazionale non era tanto preoccupata per il fatto che fosse in atto una guerra tra i due Paesi, nella quale decine di migliaia di giovani sono stati uccisi. Io li ho visti, quei corpi, sul confine sul quale stavano combattendo. E questa realtà è legata a un altro fattore, più ampio, cioè che alcuni popoli o alcuni Paesi assorbono tutta l’attenzione dei media e non lasciano molto spazio all’emergere di altre preoccupazioni: questo succede spesso perché a volte queste piccole guerre sono guerre per procura, condotte da nazioni più grandi, e per questo non c’è un reale interesse da parte dei Paesi più grandi che i riflettori siano puntati su questi conflitti. Guerra e interessi si scontrano. Ancora una volta, mi rendo conto che la voce del Papa è l’unica che solleva il problema, ovunque esso sia. Il Papa offre il suo incoraggiamento per sostenere e aiutare queste popolazioni scartate in virtù della sua convinzione che la persona umana è sacra, e questa è una convinzione per persone di fede.

Noi siamo cristiani e il mondo cristiano è impegnato, in questo momento, in un terribile conflitto. Questo significa che l’efficacia della nostra fede non si estende a tutta la realtà che ci circonda. Ciò posto, dobbiamo ricordare quello che Papa Francesco ha scritto nell’enciclica Fratelli tutti. Siamo tutti fratelli e sorelle ed esiste un’unica famiglia umana. Il figlio morto causa lo stesso dolore ai genitori ucraini e a quelli russi. I leader dei governi e i leader politici, in generale, non vogliono accettare che nessuno sia il vincitore della maratona. La sofferenza raggiunge tutti. È necessario ammettere quello che ripete il Papa e che persone ragionevoli ripetono e chiedono insieme a lui e cioè che è urgente fermare i combattimenti, risparmiare ai genitori la vista dei figli devastati e utilizzare le risorse che purtroppo sono utilizzate per la guerra: serve incanalare queste risorse per dare risposte nei Paesi poveri, per provvedere a una minima condizione di vita che renda la vita sopportabile e una gioia piuttosto che un dolore.

Eminenza, vuole aggiungere qualcos’altro?

Abbiamo parlato della necessità di trovare un nuovo modello per la pace, soprattutto in Medio Oriente. Dobbiamo riflettere sul fatto che tutti i diversi approcci tentati nel passato non sono stati efficaci. Forse dovremmo considerare che sia i musulmani sia gli israeliani sono popoli che credono in Dio, che sanno che il Patto tra Dio e il popolo chiede adesione a questo Patto e rapporti buoni e pacifici. Ecco, forse partendo dall’esperienza religiosa di questi popoli che vivono fisicamente nello stesso luogo, si potrebbe iniziare a riflettere e accettare un nuovo Patto. Dio ha fatto un Patto con Abramo. Ora potrebbero considerare di creare un Patto tra loro fondato sulla convinzione religiosa che possa essere uguale per entrambi. Potrebbero utilizzare la serietà di questo impegno per creare fiducia. Ricordando, e potenzialmente seguendo, l’antica tradizione di quel Patto tra Dio e il popolo, potrebbe essere possibile aprire un canale di comunicazione e di dialogo e alimentare un sentimento di fiducia.

 

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08 marzo 2024, 14:20