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Agosto 1903: il Conclave, il “veto” e la sorpresa di Pio X

120 anni fa l’elezione del riformatore Papa Sarto, che subito abolì il desueto diritto delle grandi monarchie cattoliche di pronunciarsi contro i candidati a loro sgraditi e rafforzò il segreto sull’andamento delle votazioni

Andrea Tornielli

Il 4 agosto 1903 veniva eletto papa il cardinale Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia, dopo un conclave che vide applicato per l’ultima volta un antico e desueto privilegio delle monarchie cattoliche, quello di pronunciare un “veto” su un candidato sgradito. Prende il nome di Pio X ed è il primo papa dopo secoli a provenire da una famiglia contadina e ad aver percorso tutte le tappe del ministero, da viceparroco a vescovo di Roma. Vivrà e morirà povero.

I 62 cardinali che il pomeriggio del 31 luglio 1903 si chiudono nel recinto del conclave devono scegliere il successore più adatto di Leone XIII, che aveva regnato per ben 25 anni e sei mesi. Papa Leone lasciava una non facile eredità. Molti cardinali auspicavano una svolta “pastorale”, un papa “non politico” né “diplomatico”. Candidato più in vista, quel 31 luglio di cento anni fa, era invece un porporato che incarnava la linea della continuità diretta con papa Leone. È un nobile e pio siciliano, Mariano Rampolla del Tindaro, fino a quel momento segretario di Stato. La sua ascesa al Soglio è favorita dalla maggior parte dei cardinali francesi, ma viene osteggiata dall’Austria che gli imputa un atteggiamento troppo favorevole a Parigi e il sostegno alle aspirazioni degli slavi in fermento nei Balcani.

Già alle ore 20 del 7 luglio, giorno della morte di Leone XIII, spentosi novantatreenne, il conte Agenor Goluchowski, ministro degli Esteri dell’imperatore Francesco Giuseppe, ordina di trasmettere un telegramma cifrato al conte Nikolaus Szécsen von Temerin, suo ambasciatore presso la Santa Sede. Questo è il testo: «Rigorosamente segreto. Pregasi di decifrare personalmente. Il membro del Sacro Collegio contro il quale l’esclusiva dovrebbe eventualmente e in caso estremo essere data, è il cardinale Rampolla». La cosiddetta “esclusiva” era una sorta di antico diritto di veto, concesso alle grandi monarchie cattoliche a partire dal XVII secolo. Di quel veto che incombe sull’imminente conclave sono a conoscenza soltanto due dei cardinali le cui diocesi appartengono all’impero Austro-Ungarico: il vescovo di Cracovia Jan Maurycy Paweł Puzyna de Kosielsko, e il vescovo di Breslavia Georg Kopp. Informati dell’esclusiva imperiale, i porporati austro-ungarici puntano su due candidature: quella di Serafino Vannutelli e quella di Girolamo Maria Gotti, carmelitano Prefetto di Propaganda Fide. Prima dell’inizio del conclave, il cardinale Kopp tenta di concludere un’intesa con Rampolla del Tindaro su un candidato gradito a quest’ultimo. Ma l’ex segretario di Stato si schermisce e non accetta.

Non tutti i francesi però sostengono Rampolla. Il cardinale francese François-Désiré Mathieu, arcivescovo di Tolosa, afferma apertamente: «Vorremmo un papa che sia stato estraneo a ogni polemica. Un uomo che abbia trascorso la vita nella cura delle anime e che si occupi minuziosamente del governo della Chiesa e che, soprattutto, sia padre e pastore. Un tale Pontefice noi lo abbiamo a disposizione… il patriarca di Venezia». Anche il cardinale arcivescovo di Milano, Andrea Carlo Ferrari, che dovrà poi patire la stagione dei sospetti durante le campagne antimoderniste avvenute durante il pontificato di Pio X, punta sul cardinale Sarto. Prelato prudente, considerato dal governo italiano «il più transigente degli intransigenti».

Nel frattempo Puzyna fa presente a molti colleghi porporati di essere gravato da un imbarazzante “segreto imperiale”. Il nome di Giuseppe Sarto non compare nei pronostici della vigilia pubblicati dalla stampa. Ma ciò che è interessante notare dalla lettura dei giornali dell’epoca è piuttosto un altro elemento: già prima dell’inizio del conclave, e dunque prima che si sappia del veto imperiale, l’autorevole candidatura di Rampolla del Tindaro viene data per traballante. Pur ammettendo che il conclave avrebbe ruotato attorno al suo nome, sia il “Corriere della Sera” che la “Tribuna” scrivono chiaramente che per il segretario di Stato di Leone XIII le possibilità di essere eletto si stavano riducendo.

La mattina del 1° agosto iniziano gli scrutini: due al giorno, uno la mattina e uno al pomeriggio. Per essere eletti è necessario raggiungere la maggioranza dei due terzi, cioè 42 voti. Diverse sono le testimonianze su quanto avvenuto in quei giorni a partire dal diario “Un témoin. Les derniers jours de Léon XIII et le conclave de 1903”, pubblicazione anonima attribuita al cardinal Mathieu in “Revue des Deux Mondes” (1904), e poi “Il Resoconto segreto del cardinal Ferrari” e gli estratti di altri diari (dei cardinali Ferrata, Svampa, Gibbons, Richard, Kopp) e brani di memorie riportati da Carlo Snider nel suo “L’episcopato del Cardinale Andrea C. Ferrari” (1981). Al primo scrutinio, Rampolla del Tindaro ottiene 24 voti, Gotti 12, Sarto 5, Vannutelli 4. Il pomeriggio di quel giorno Rampolla sale a 29 e Sarto a 10, mentre Gotti si attesta 16. Il patriarca di Venezia commenta: «Volunt jocari supra nomen meum» (vogliono divertirsi sul mio nome). Sarto dunque non crede affatto di essere realmente candidato. Il cardinale Antonio Agliardi, cancelliere di Santa Romana Chiesa, sconsiglia di insistere sul nome di Gotti e caldeggia quello di Sarto.

Inizia nel tardo pomeriggio del primo agosto lo strano andirivieni del cardinale Puzyna, che gira per il conclave con il foglio dov’è riportato il testo del “veto”. Il porporato vorrebbe farlo leggere al decano del sacro collegio, il cardinale Oreglia, che però si rifiuta. Oppone un fermo diniego anche il segretario del conclave, monsignor Rafael Merry del Val, che ritira prontamente la mano facendo cadere sul pavimento il foglio e costringendo così il porporato a piegarsi per raccoglierlo.

La mattina del 2 agosto, secondo giorno di conclave, dopo aver preavvertito Rampolla, Puzyna legge in latino il testo del veto: «Mi faccio onore, essendo stato chiamato a questo ufficio da un ordine altissimo, di pregare umilissimamente Vostra Eminenza, come Decano del Sacro Collegio degli Eminentissimi Cardinali di Santa Romana Chiesa, e Camerlengo, di voler apprendere per sua propria informazione e di notificare e di dichiarare in modo ufficioso, in nome e con l’autorità di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria, che volendo Sua Maestà usare d’un antico diritto e privilegio, pronuncia il veto d’esclusione contro il mio Eminentissimo Signor Cardinale Mariano Rampolla del Tindaro».

L’“esclusiva” imperiale viene accolta con notevole fastidio. Appena il vescovo di Cracovia ha terminato la lettura, si alzano per protestare sia il camerlengo sia Rampolla, vittima designata del veto. Tutti i porporati si associano alla protesta, considerando assurda e inopportuna l’ingerenza. Ci si sarebbe aspettati, come reazione, una significativa crescita di voti per il cardinale “escluso” dall’imperatore. Invece quella mattina Rampolla non guadagna nemmeno un voto rispetto ai 29 della sera precedente. Segno evidente di uno stallo che non può certo dipendere soltanto dall’iniziativa imperiale esecrata da tutti. Il cardinale Sarto, invece, sale a 21 voti, mentre tramonta la candidatura Gotti, che scende a 9.

Il pomeriggio di quel giorno, i cardinali francesi, irritati per la sconfitta di Rampolla, decidono di pronunciare una protesta contro il veto di Francesco Giuseppe di fronte ai colleghi del conclave. È una mossa per cercare di recuperare voti in favore dell’ex Segretario di Stato. Subito dopo prende la parola il cardinale Sarto, il quale dice: «È sicuro che non accetterò mai il papato, per il quale mi sento indegno. Chiedo che gli Eminentissimi dimentichino il mio nome».

Si torna dunque a votare: Rampolla sale soltanto di un voto, arrivando a 30, Sarto passa da 21 a 24, Gotti scende a 3.

Il cardinale Ferrari tenta allora di convincere il collega Sarto, che risponde: «Mi sento impari a tanto peso. Non è possibile che io me lo sobbarchi… Io avrò i primi nemici fra i più vicini; quelli stessi che mi portarono li conosco bene, non possono esser benevoli…».  Ferrari insiste: «Un rifiuto potrebbe costarle assai caro e penoso per tutta la vita. Ritornerà a Venezia, con un rimorso che dovrà trascinarsi dietro insieme con la vita, senza forse poterlo mai abbandonare. Pensi alla responsabilità e ai danni che deriverebbero alla Santa Chiesa o da una elezione che sarebbe invisa in Italia e fuori, o da un tale prolungamento del conclave da non sapersi bene dire (e tutti ne convengono) se di giorni, si settimane o anche di mesi». Sarto replica: «Ma io mi sento morire. La notte passata non ho chiuso occhio, Oggi non ho preso cibo. Insomma, io morirò presto».

Il 3 agosto è la giornata più lunga. Nonostante Ferrari torni alla carica con lui anche quella mattina, il patriarca di Venezia gli appare dotato di una «tranquilla fermezza che difficilmente si può espugnare». Si registra intanto il tentativo da parte del decano Luigi Oreglia di far risalire la candidatura di Gotti. Allo scrutinio di quella mattina, Sarto sale a 27 voti, mentre Rampolla comincia a scendere e ne ottiene 24. Il patriarca di Venezia allora chiede la parola e dice: «Insisto perché dimentichiate il mio nome. Davanti alla mia coscienza e davanti a Dio non posso accettare i vostri voti». Parole considerate come una doccia fredda dai suoi sostenitori.

Intanto i francesi, di fronte all’evidente stallo della sua candidatura, prospettano a Rampolla la possibilità di far confluire i suoi voti su un altro porporato a lui gradito, un nome nuovo che permetta di uscire dallo stallo. Ma l’ex segretario di Stato resiste, e spiega le ragioni per cui lo fa: «Occorre sostenere e difendere l’indipendenza del sacro collegio e la libertà nella scelta del papa. Per questo considero mio dovere non ritirarmi dalla lotta, seguendo anche il parere formale del mio confessore».

Decisivo in quelle ore, è l’intervento del cardinale Francesco Satolli, che incontrando Sarto mentre esce dalla cella, lo rimprovera: «Vostra Eminenza vuol resistere alla volontà di Dio manifestata così apertamente dal sacro collegio, e come Giona fuggire dalla faccia del Signore. Il Signore potrebbe permettere uno scontro, in cui Vostra Eminenza potrebbe restare vittima, insieme a tanti altri, e lei andrebbe davanti a Dio responsabile di tante altre vittime». Di fronte a queste parole, il patriarca risponde: «Non mi dica queste cose, ho tanta ripugnanza del sangue». «Glielo dico perché non accetta di essere papa», aggiunge Satolli. Sarto allora alza le mani, arrendendosi: «Sia fatta la volontà di Dio». È il segnale che si attendeva. La notizia si trasmette subito di bocca in bocca tra i porporati: Sarto non rifiuta più l’elezione. Nella votazione del pomeriggio il patriarca di Venezia raggiunge i 35 voti mentre Rampolla scende a 16.

Commenterà il cardinale James Gibbons, arcivescovo di Baltimora: «Ad ogni scrutinio in cui vide crescere i voti a favor suo, il cardinale Sarto prese la parola per supplicare il sacro collegio che desistesse dall’idea d’eleggerlo: tutte le volte gli tremava la voce, gli si accendeva il viso, e gli scendevano lacrime dagli occhi. Cercava di volta in volta di documentare più minutamente che mai i titoli che sembravano mancargli per il papato. E invece, vuol crederlo? Furono questi discorsi, così pieni di umiltà e di sapienza, che resero sempre più vane le sue suppliche. Imparammo a conoscerlo dalle sue parole meglio che non avessimo potuto farlo dalle notizie dei suoi atti e dal bene che i conoscenti dicevano di lui».

Si arriva così al 4 agosto. I cardinali francesi, irritati dalla resistenza di Rampolla, passano dalla parte di Sarto che anche grazie a loro ottiene 50 voti (otto in più della maggioranza necessaria), Rampolla si attesta a 10 e Gotti a 2. Questa è la riposta del neo-eletto alla tradizionale domanda: «Quomodo vis vocari?»: «Quoniam calix non potest transire, fiat voluntas Dei (Poiché il calice non può passare, si compia la volontà di Dio). Fiducioso nella protezione divina e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e dei Santi Pontefici che si sono chiamati col nome di Pio, soprattutto di quello che strenuamente nel secolo scorso combatterono contro le sette e gli errori dilaganti, assumo il nome di Pio X». Dopo aver pronunciato la formula di accettazione, Pio X quasi sviene accasciandosi sul tronetto, l’unico rimasto con il baldacchino alzato.

Appena eletto, il nuovo papa incarica una commissione cardinalizia di studiare la questione del “veto” e con la costituzione “Commissum nobis” del 20 gennaio 1904, abolisce e riprova il veto e ogni altra eventuale intromissione del potere civile nell’elezione pontificia, stabilendo la scomunica per i porporati che si fossero fatti tramite di queste “esclusive”. Papa Sarto riformerà anche l’intera procedura dell’elezione pontificia, irrigidendo notevolmente le norme sul segreto del conclave e introducendo sanzioni canoniche per chi l’avesse violato.

 

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04 agosto 2023, 15:00