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Il teologo venezuelano Rafael Luciani, esperto presso la Commissione teologica del Sinodo sulla Sinodalità Il teologo venezuelano Rafael Luciani, esperto presso la Commissione teologica del Sinodo sulla Sinodalità

Sinodo, Luciani: la Chiesa non ascolta più solo sé stessa

Rafael Luciani, teologo venezuelano, membro della Commissione teologica del Sinodo, spiega in un’intervista le novità della prospettiva ecclesiologica introdotta dal percorso sinodale appena inaugurato. “Mi auguro che le Chiese locali diventino consapevoli della loro autorità e che si elabori un modello istituzionale decentralizzato, come vuole il Papa”

Fabio Colagrande – Città del Vaticano

“La fase diocesana del Sinodo ‘Per una Chiesa sinodale’ che si è appena aperta è la più importante, perché è quella in cui la Chiesa ascolta il mondo e non soltanto sé stessa”. A spiegarlo, ospite negli studi di Radio Vaticana-Vaticannews, è Rafael Luciani, teologo venezuelano, membro della Commissione teologica del Sinodo e dell’equipe teologico-pastorale del Consiglio episcopale latino-americano, il CELAM. Secondo Luciani, che porta al Sinodo la cultura sinodale latinoamericana, perché questa fase di ascolto del Popolo di Dio funzioni occorrono “una conversione delle mentalità e un riassetto delle strutture ecclesiali esistenti”. Per il teologo venezuelano il Sinodo sulla sinodalità è un momento di cambiamento di prospettiva ecclesiologica fondamentale. “Papa Francesco - sostiene - sta portando avanti una nuova fase della recezione del Vaticano II”.

L'intervista a Rafael Luciani

Lei ha partecipato il 9-10 ottobre all’inaugurazione del Sinodo in Vaticano. Che impressione ha avuto?

Mi hanno colpito le parole del Papa e anche del cardinale Grech, in apertura del Sinodo, perché hanno subito rivolto un saluto al Popolo di Dio. È stato un bel gesto in apertura di un Sinodo sulla sinodalità, perché in fondo si tratta di un Sinodo sulla Chiesa Popolo di Dio e del Popolo di Dio. Dunque, quel saluto iniziale è stato, secondo me, un messaggio molto diretto da parte del Papa che, come sappiamo, valorizza molto i gesti. Un'altra cosa che mi ha colpito è il fatto che Francesco abbia subito parlato del Battesimo come qualifica dei cristiani. Questo è un concetto importante perché cambia anche le relazioni tra di noi, tra i fedeli e anche rispetto alla gerarchia. Si è trattato perciò di un messaggio forte e diretto sulla centralità dell’ecclesiologia del Popolo di Dio.
 

Papa Francesco, ha ripetuto più volte in apertura del Sinodo che quest’ultimo non è un parlamento. Perché, secondo lei, ci tiene tanto a sottolineare questo aspetto?

Penso che la Chiesa abbia un modello - che per noi oggi è nuovo - che è quello del primo millennio e che si basa sul consenso. Il consenso non è un risultato che si possa ottenere con una votazione. Questo tra l’altro dimostra come il dibattito sulle richieste di attribuzione del diritto di voto non solo ai vescovi non centri il punto. Il consenso implica un lavoro fatto insieme, in una condizione di uguaglianza e poi una fase di discernimento che può essere corta, media o lunga. Per arrivare al consenso ci vogliono perciò tempi lunghi e bisogna avere la capacità di non restare solo legati alla propria idea, ma anche aperti all’idea dell'altro. Quindi, se il Sinodo fosse solo un parlamento, una maggioranza potrebbe annullare le altre minoranze. Ma nel dinamismo del consenso è invece necessario che quelle minoranze e la maggioranza arrivino insieme ad un accordo che rappresenta il consenso della Chiesa e non dei gruppi, dei singoli. Questo è un cambiamento forte perché così il Vescovo non è più chiamato a portare solo la sua voce, ma deve portare la voce del Popolo di Dio che rappresenta. Quindi è una pratica nuova anche per gli stessi presuli che debbono impararla. Ma solo così il Sinodo può essere il luogo dove il Popolo di Dio è davvero rappresentato dalla voce del vescovo e non dalla sua opinione personale. Questo dinamismo, tra l’altro, è ben descritto anche nel numero 69 del documento sulla sinodalità della Commissione Teologica Internazionale, quando si sottolinea la distinzione tra “il processo per elaborare una decisione attraverso un lavoro comune di discernimento, consultazione e cooperazione, e la presa di decisione pastorale che compete all’autorità del vescovo, garante dell’apostolicità e cattolicità”.

Come riassumerebbe in poche parole la sfida principale di questo Sinodo per una Chiesa sinodale?

Questo è un Sinodo che non è dedicato a un tema ecclesiale specifico ma alla Chiesa stessa. È un evento che porta avanti le parole di Papa Paolo VI, il quale, nella seconda sessione del Concilio, chiese di trovare una forma più completa per essere Chiesa. In definitiva, la sinodalità è proprio questa forma. Rappresenta un nuovo modo per rileggere tutta l'interpretazione del Concilio Vaticano II alla luce dell’ecclesiologia del Popolo di Dio descritta nel capitolo 2 della Lumen gentium. Questa è la sfida grandissima che fa di questo Sinodo un momento di cambiamento di prospettiva ecclesiologica fondamentale e quindi l'evento più importante dopo il Concilio. Oggi Papa Francesco sta portando avanti una nuova fase della recezione del Vaticano II che lui stesso ha inaugurato fin dalla sua elezione, nel 2013.

 

Quanto è cruciale la prima fase del Sinodo, quella cosiddetta diocesana, in cui verranno raccolte le voci di tutti i battezzati? Come fare perché funzioni davvero?

Certamente è un’esperienza nuova per tante diocesi nel mondo, perché non sono abituate a questa pratica. Per realizzarla occorrono una conversione delle mentalità ma anche un riassetto delle strutture ecclesiali esistenti, per far sì che si possa accogliere questo ascolto del Popolo di Dio. È certamente la fase più importante perché è quella in cui tutti noi possiamo chiedere alla Chiesa ciò che la società chiede alla Chiesa. Possiamo chiedere perciò dei cambiamenti, affinché ci sia più partecipazione, affinché tutti siano coinvolti, non soltanto nell'esercizio pastorale, ma anche nelle decisioni e nella governance della Chiesa. Quindi, questo è il momento in cui va ascoltata la voce di tutti e non solo dei vescovi. Si dovrebbe sentire proprio il clamore del Popolo di Dio. Per questo è necessario un cambiamento teologico-culturale, perché spesso nelle diocesi i laici sono considerati semplicemente dei destinatari passivi di progetti che sono stati già elaborati dai presbiteri o anche dal vescovo nel suo piano pastorale. Inoltre, un altro cambiamento importante, com’è stato ricordato anche dal Segretario del Sinodo, dovrebbe essere la consultazione non solo dei battezzati, ma anche di tutti quelli che possono contribuire, siano atei o agnostici. Questo rappresenta un vero approfondimento dell'ascolto: la Chiesa che ascolta il mondo e non soltanto sé stessa. Se ciò non accadesse, la Chiesa rimarrebbe un’istituzione autoreferenziale, chiusa in sé stessa, senza una vera conversione.

Le Chiese latinoamericane sperimentano già da tempo la sinodalità. Quale contributo possono portare a questo Sinodo?

Nelle nostre chiese locali, anche prima del Concilio, c'era già la cultura della collegialità. Nel 1955 - con la creazione del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano) - c'era già questo modo di procedere tra i vescovi a le Chiese locali. Ciò dimostra che approfondire la sinodalità significa far sì che l'esercizio della collegialità non sia soltanto una questione che riguarda i vescovi, ma che porti a loro la voce di tutti i battezzati, integrandola. Ad esempio, abbiamo realizzato recentemente la riforma del CELAM, che è un consiglio collegiale. La riforma, in chiave sinodale, vuole far capire che oggi, in America Latina, il servizio pastorale dei vescovi deve integrare tutti, nel processo di elaborazione e di decisione: religiosi, laici, presbiteri e non soltanto i vescovi. Ma si pensi anche alla CLAR (Confederazione Latinoamericana dei religiosi e religiose), creata nel 1959, e che da allora ha sempre portato avanti un modo di procedere collegiale per tutta la vita religiosa nel Continente.

 

Quali sono le sue speranze per questo Sinodo?

Mi auguro che per questo terzo millennio come Chiesa riusciamo a elaborare i primi orientamenti che ci portino ad un nuovo modello istituzionale che sia decentralizzato, nel senso teologico-culturale. Dunque una Chiesa globale, mondiale, fatta di tante culture. Mi auguro inoltre che le Chiese locali diventino consapevoli della loro autorità. Per questo abbiamo ripreso e approfondito l'ecclesiologia delle Chiese locali. La mia speranza è che le Diocesi siano presto considerate come Chiese che portano avanti tutta la vita ecclesiale, in comunione tra di loro, con il Papa e con la Chiesa universale. Non c’è infatti una Chiesa astratta. La Chiesa esiste sempre e si realizza in un luogo socioculturale concreto, dove s’incarna e sviluppa la sua missione. Questo empowerment, cioè questa conquista di consapevolezza e autorità da parte delle Chiese locali, mi sembra uno degli aspetti più rilevanti su cui il Papa insiste, fin dall’inizio del suo Pontificato: uno dei più importanti cambiamenti nella nostra cultura ecclesiale. Anche in America Latina, eravamo abituati che tutto veniva già deciso a Roma. Ora invece ci viene chiesto di avviare un processo dal basso, induttivo e quindi di passare a un’altra idea di Chiesa, una Chiesa che pensa la sua identità e missione in chiave sinodale. Quella che si aprirà allora sarà la sfida di una nuova ermeneutica del Concilio che integri Lumen Gentium con Ad gentes, alla luce di Gaudium et Spes e Dei verbum. In pratica, quella che noi tologi chiamiamo una nuova “ecclesiogenesi”.

 

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19 ottobre 2021, 10:30