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Mario Grech riceve la porpora cardinalizia Mario Grech riceve la porpora cardinalizia 

Il cardinale Grech: la Chiesa non giochi in casa al riparo dal mondo

Il porporato maltese torna sulle affermazioni del Papa durante la celebrazione del Concistoro e riflette sul rischio della chiusura e dell'autoreferenzialità: "Anche il ritualismo - dice - può diventare un 'gioco' se non scendiamo sulle strade a incontrare l'umanità". Prima della cerimonia, confida, ho ricevuto una particolare benedizione da una senzatetto

Antonella Palermo - Città del Vaticano 

Il cardinale Mario Grech, maltese, segretario generale del Sinodo dei Vescovi, è stato il primo a ricevere la berretta da Francesco il 25 ottobre. Al Concistoro - che si è svolto con un carattere inedito a causa delle limitazioni imposte dalla pandemia - si è rivolto al Pontefice sottolineando come proprio queste circostanze dovrebbero aiutare tutti e ciascuno a cogliere nella tragedia anche l’opportunità di ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza. Il porporato descrive i sentimenti con i quali ha vissuto la cerimonia:

Ascolta l'intervista al cardinale Grech

R. - Sinceramente, devo dire che io in realtà ho vissuto una esperienza molto intima. Sebbene in una assemblea ridotta, c’era un ambiente di preghiera e di famiglia. Forse l’ho gustato ancora di più, per dire così, quel momento. Se devo provare a descrivere ciò che ho sentito in quel momento, prendo in mano il Vangelo della Festa di S. Andrea apostolo, che dice che Gesù stava camminando e guardò Andrea. Ecco, lo sguardo di Gesù ha il potere di creare. Noi diciamo giuridicamente che il Santo Padre durante il Concistoro "crea" i cardinali, ma credo che anche stavolta è stato lo sguardo misericordioso del Signore che mi ha "ri-creato". Interpreto il mandato che mi ha affidato il Santo Padre come una rinnovata chiamata che il Signore mi sta facendo come un cristiano. Prima di essere, infatti, cardinale, vescovo, sacerdote, sono un battezzato. Questa è la porta che ci apre per l’avventura cristiana.

Papa Francesco ha invitato ad essere sempre vigilanti per rimanere sulla strada di Dio. "Perché – ha detto - con i piedi, con il corpo possiamo essere con Lui, ma il nostro cuore può essere lontano, e portarci fuori strada". Ed ha aggiunto: “Pensiamo a tanti generi di corruzione nella vita sacerdotale”. Ha avvertito che “il rosso porpora dell’abito cardinalizio, colore del sangue, può diventare, per lo spirito mondano, quello di una eminente distinzione”. Che effetto le ha fatto ascoltare queste parole?

R.  - E’ un consiglio che viene da un padre, perché il Santo Padre è chiamato così non semplicemente a livello formale: è davvero un padre per ciascuno di noi. Io credo che in quella omelia al Concistoro ci ha ricordato che Gesù è l’uomo che cammina, che ha scelto  la strada dell’incontro, non solo con il Signore, ma con l’umanità. Se noi non cerchiamo di mettere in pratica, di vivere il mistero dell’incarnazione, il Dio che si è fatto uomo, il vescovo che si fa uomo, non saremo in grado di rispondere con fedeltà alla nostra chiamata ecclesiale. E’ vero, il Papa ha sottolineato la corruzione, io la intendo in senso ampio: noi possiamo lasciarci corrompere, ma nel senso di corrompere l’anima. Se perdiamo questa caratteristica, che siamo gente della strada, allora veramente saremo corrotti, nel senso deteriore del termine.  

Nell’indirizzo di saluto che lei ha rivolto al Santo Padre, facendosi portavoce di tutti i neo cardinali, lei ha parlato della Chiesa che deve rimettersi in cammino, e deve rifarlo sempre perché "è un processo". Ha citato anche il Concilio Vaticano II. Secondo lei, cosa resta ancora incompiuto di quell’evento della storia della Chiesa?

R. - L’ho sottolineato anche nel discorso, che riusciamo a capire e ad apprezzare di più chi è il popolo santo di Dio. Credo che il cammino insieme, la sinodalità, se riesce ad approfondire meglio questa realtà allora sarà un arricchimento della Chiesa, che ci ha dato anche il Vaticano II.

E’ questa, dunque, la priorità su cui lei intende continuare a contribuire per il rinnovamento sinodale della Chiesa, anche alla luce di quello che è stato il suo ministero pastorale come vescovo della “piccola” Malta?

R. - Venendo da una piccola diocesi, avevo la possibilità e il dono di mettermi accanto alla gente, di ascoltare l’uomo, delle volte anche l’uomo che è credente ma non ha la terminologia, gli strumenti di esprimersi bene, tuttavia crede. Io spero che questa prossimità alla gente continuerò a condividerla con i miei confratelli Pastori. Ci sono già tanti che stanno facendo questa esperienza, ma più noi intensifichiamo la nostra relazione con il popolo di Dio, più questo ci aprirà la porta per scoprire ricchezze che finora non abbiamo ancora conosciuto.

Può dirci come è andato il tradizionale incontro con Papa Benedetto?

R. - E’ stato un momento di gioia ritrovarmi con Papa Benedetto che ha creduto in me e mi ha creato vescovo nel 2006. Vedere questo Pastore, quest'uomo, con gli anni che pesano, ma allo stesso tempo lucido e sorridente e con la voglia di comunicare l’esperienza che lui sta facendo dello Spirito, ci ha incoraggiato molto. Lui ha difficoltà nell’esprimersi – ha infatti detto all’inizio dell’incontro: “Il Signore mi ha tolto la parola per farmi apprezzare il silenzio” – ma ha cercato di incoraggiarci per andare avanti nell’avventura con il Signore.

Nell'omelia della prima domenica d'Avvento, Papa Francesco ha ribadito il rischio di vivere autocentrati: “Ci si comincia a lamentare, ci si sente vittima – ha detto - e si diventa complottisti. E’ una catena". Come hanno risuonato in lei queste parole?

R. - Noi ci sbagliamo se saremo autoreferenziali, se ci chiudiamo. Il Papa continua a invitarci a prendere la strada, a essere Chiesa in uscita, anche se ci sono dei rischi. Possiamo anche essere incidentati, l’importante è non chiuderci. Gesù non si è chiuso nel tempio, in una sinagoga, ma è uscito per incontrare l’uomo. Se ci chiudiamo, non solo perderemo tante possibilità per noi stessi, ma lasceremo l’uomo a sperare la presenza di Dio.

Ci fa un esempio, a questo proposito?

R. - Se noi continuiamo a ‘giocare’ in casa, protetti da tante cose, rimarremo sempre dentro. Quando uso il termine ‘giocare’ mi riferisco al rischio di ‘giocare’ anche con la liturgia, per esempio, con il ritualismo. Non sto dicendo che la liturgia non è importante, anzi, è il culmine, ma c’è il rischio che noi ci escludiamo dal mondo per ripararci, per salvarci dal mondo. Non ci rendiamo conto che stiamo perdendo l’opportunità di ascoltare Dio che esce dalla bocca dell’uomo, anche da quella di chi non è battezzato, per esempio.

Il suo motto episcopale “In fractione panis” ripropone la centralità dell'Eucaristia nel mistero della Chiesa ma anche l'importanza di condividere il pane con i fratelli. Il Papa lo ha ripetuto anche per l'inizio dell'Avvento: “L'antidoto all'indifferenza è la vigilanza della carità”. Come si coniugano concretamente vita di fede e azione di carità nella testimonianza del cristiano?

R. - Non possiamo separare la fede dalla carità. Anzi, è la carità che ci apre la strada della fede. La carità è il contatto con il povero. Posso farle una confidenza: lo scorso sabato pomeriggio, lungo la strada per andare nella Basilica di San Pietro, ho incontrato, davanti al Palazzo Migliori, dove sono accolti i senzatetto, una donna senza fissa dimora. Mi ha riconosciuto e mi ha chiamato a sé: “Padre, mi dia una benedizione”. Io mi sono fermato e le ho detto: “Io ho bisogno oggi, all’inizio del mio ministero, di una benedizione tua”. Io mi vanto, sinceramente, che ho iniziato il cammino cardinalizio con la benedizione di una persona povera e lo dico perché credo che la carità, non solo quella che noi facciamo, ma anche quella che riceviamo, ci apre la strada della fede.

Eminenza, lei ha maturato fin da giovane, sul campo e con gli studi, una particolare sensibilità pastorale verso le tematiche della famiglia. Anche alla luce dell'esito delle due assemblee sinodali del 2014 e 2015, come vede presente e futuro delle famiglie?

R. - Positivo, promettente. E’ vero che noi alle volte leggiamo e ascoltiamo notizie negative circa la vita matrimoniale. Ma questa non è tutta la verità. Io ho l’impressione, anzi sono convinto, che oggi c’è la riscoperta del valore della famiglia. Noi abbiamo questa buona novella: il Vangelo della famiglia. Non dobbiamo averne paura, dobbiamo annunciarlo. Sono convinto che ci sono persone che aspirano alla famiglia e forse sono desiderosi di ascoltare questa buona notizia. Confido che la famiglia, non solo ha un futuro, ma è il nostro futuro, anche per la Chiesa. Se noi non riscopriamo l’identità, la vocazione e la missione della famiglia, come Chiesa domestica e dove inizia il cammino cristiano, ho paura che sarà difficile fare esperienza di famiglia nella comunità ecclesiale.  

A lei è stata assegnata la Basilica di Santi Cosma e Damiano come diaconia, una delle più antiche e belle chiese di Roma, che peraltro nel medioevo era riconosciuta proprio come uno dei principali centri di assistenza ai poveri e ai pellegrini in città…

R. - So molto poco di questa Basilica. Ma so che Cosma e Damiano erano due medici e ciò che mi viene in mente è che l’ambito della salute è un ambito prezioso con tante persone coinvolte. Forse possiamo fare qualcosa per sostenere coloro che sono impegnati in questo campo, nel servizio che stanno dando all’uomo, soprattutto in questo periodo. Ho il sogno che magari potremmo sfruttare questa occasione per creare un aggancio con il mondo della scienza, che è una rivelazione dell’amore di Dio. Ho amici che sono medici e so che si sforzano nel cammino di fede, ponendosi tante domande… forse possiamo dare un servizio a questa gente, vedremo, strada facendo.

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01 dicembre 2020, 07:35