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Epidemie, quarantene, chiese vuote: precedenti della storia

Le condizioni in cui si celebra questa Pasqua non sono inedite: papi e vescovi nei secoli hanno promosso l’isolamento nelle case e la chiusura di edifici di culto per evitare contagi. I casi di Milano nel Natale 1576 e di Roma nel 1656

VATICAN NEWS

Sarà una Pasqua singolare, quella che milioni di cristiani nel mondo stanno per vivere nel 2020. A motivo dell’isolamento per evitare il contagio del Covid-19, in diversi Paesi non sarà possibile ai fedeli partecipare alle grandi liturgie del Triduo Pasquale che fa memoria e attualizza l’istituzione dell’Eucaristia, la passione e morte di Gesù, la sua resurrezione. Non sono mancate, in Italia, discussioni e anche polemiche nei confronti dei vescovi che hanno condiviso le decisioni del governo. Un rapido sguardo alla storia dei secoli passati aiuta a comprendere come la drammatica situazione che stiamo vivendo, a motivo delle migliaia di vittime uccise dal virus, con le sue limitanti conseguenze anche sulla vita ordinaria delle comunità cristiane impedite, non è la prima volta che avviene. Anche per quanto riguarda l’accesso alle chiese e alle celebrazioni.

Durante la peste del 1656, ad esempio, Papa Alessandro VII aveva agito con molta determinazione per contenere il contagio che avrebbe portato a un milione di morti in tutta la penisola. In un resoconto storico riportato nel volume “Descrizione del contagio che da Napoli si comunicò a Roma nell’anno 1656” (Roma, 1837), si legge: “Né solamente furon dismesse le comunanze […] civili, ma non meno le sacre, cioè le pontificie cappelle, le consuete processioni, le pie congreghe, la solennità degli uffizii nelle chiese, chiudendole in que’ giorni ch’eran per loro segnalatamente festivi, e però attrattivi di molto popolo”. Il Papa “promulgò un giubileo universale, non imponendo già (secondo il costume) o processioni, o visitazioni di poche determinate basiliche, affine di non accumular quivi gente: né iterati digiuni, per non disporre i corpi al malore col men salutifero pasto…”

Come ricorda Marco Rapetti Arrigoni, giornalista e scrittore, autore (sul blog Breviarium.eu https://www.breviarium.eu/ ) di alcuni articoli dedicati alle pandemie nella storia in rapporto all’atteggiamento dell’autorità religiosa, “la Congregazione di Sanità predispose un sistema di lazzaretti basato sulla rigida separazione dei ricoverati in luoghi della città distinti, destinati rispettivamente al ricovero dei malati, all’osservazione dei casi sospetti e alla convalescenza dei sopravvissuti. L’obbiettivo era quello di procedere celermente all’isolamento e al trasferimento degli infetti, con l’applicazione coatta della quarantena a tutte le persone con le quali fossero venuti a contatto”.

Inoltre, “la Congregazione di Sanità, su mandato del Pontefice, intervenne anche a regolamentare la vita religiosa della città introducendo notevoli limitazioni. Fu sospesa l’adorazione eucaristica comunitaria nel contesto della celebrazione delle Quarantore e vennero vietate le processioni e le prediche di piazza. Feste e cerimonie furono officiate a porte chiuse e le autorità ecclesiastiche arrivarono a privilegiare forme private e personali di devozione e preghiera”. E, dato che nonostante i divieti i romani continuavano a visitare la chiesa di Santa Maria in Portico, dove era custodita l’icona della Beata Vergine del Portico, protettrice della città dalle pestilenze, “la Congregazione, per impedire che l’affollamento potesse rivelarsi occasione propizia per l’ulteriore diffusione del male, dispose la chiusura della chiesa e della via sulla quale essa si affacciava”.

Se questa era la Roma del Papa, ugualmente attente alla salvezza delle persone e non soltanto delle loro anime erano anche le autorità della Chiesa ambrosiana. Nel secolo precedente, nel 1576, Milano era stata colpita dalla peste. Il Governatore della città,

Antonio de Guzman y Zuñiga, aveva introdotto rigide limitazioni ai pellegrinaggi, disponendo, ricorda Marco Rapetti Arrigoni, che “l’ingresso in città fosse consentito solo a piccoli gruppi di una dozzina di persone in possesso della ‘bolletta’, un documento, rilasciato dalle autorità sanitarie del territorio di provenienza, che attestasse l’assenza di sintomi riconducibili al morbo pestilenziale”.

Il cardinale Carlo Borromeo, santo arcivescovo della diocesi ambrosiana, esortava i sacerdoti a soccorrere i malati, e lui fece lo stesso. Borromeo, conoscendo i rischi di contagio, scrive ancora Rapetti Arrigoni, “per non divenire vettore del morbo, cominciò a conferire con i suoi interlocutori tenendoli a distanza, a cambiare spessissimo ed a lavare in acqua bollente i suoi abiti, a purificare ogni cosa che toccava con il fuoco e con una spugna imbevuta d’aceto che portava sempre con sé; nelle sue visite per Milano teneva le monete per le elemosine all’interno di orci colmi d’aceto”.

Per chiedere a Dio di fermare l’epidemia, l’arcivescovo di Milano aveva indetto quattro processioni, “alle quali avrebbero potuto prendere parte solo gli uomini adulti, divisi in due file di una sola persona e distanti l’una dall’altra circa tre metri, vietando la partecipazione degli infetti e dei sospetti di contagio. Il Borromeo guidò, a piedi scalzi e con una corda al collo, la prima processione dal Duomo fino alla Basilica di Sant’Ambrogio”.

A Borromeo si deve anche la proposta di una quarantena generale per la quale tutti i cittadini dovevano per quaranta giorni chiudersi in casa. “Il Cardinale - si legge in un antico resoconto biografico sul santo arcivescovo - teneva che niuna cosa, che potesse essere di giovamento a gli infermi e a’ poveri, fosse fuori dell’officio suo”.

Il 15 ottobre 1576 il Tribunale di Provvisione, accogliendo la proposta di Borromeo, aveva decretato la quarantena generale per tutti gli abitanti di Milano. Il 18 ottobre San Carlo aveva emanato un editto simile per il clero secolare e regolare, ordinando “alle persone Ecclesiastiche che similmente si contenessero in casa” ed esentando dall’osservanza del precetto di “stare in casa ritirato” solo i sacerdoti ed i religiosi destinati all’assistenza spirituale e materiale della popolazione.

I milanesi in quarantena non potevano andare in chiesa a pregare né partecipare alla messa. San Carlo fece in modo che negli incroci della città ci fossero croci e altari presso cui celebrare messe alle quali era possibile partecipare da lontano, affacciandosi alle finestre. Dalla metà di dicembre del 1576 la propagazione dell’epidemia parve rallentare. Nonostante il miglioramento della situazione le autorità avevano deciso di prolungare la quarantena, per evitare far ripartire i contagi, e questo prolungamento dell’isolamento era avvenuto con il consenso del cardinale, sebbene san Carlo fosse dispiaciuto perché “il popolo non poté andare nelle Chiese, neanche nelle solennità del Santo Natale”.

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09 aprile 2020, 09:30