26 novembre 1969, Paolo VI e il nuovo rito della Santa Messa
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
Sono passati 55 anni dall’udienza generale del 26 novembre 1969. È il giorno in cui Papa Paolo VI annuncia che, a cominciare dalla domenica successiva, sarebbe stato instaurato il nuovo rito della Messa, riformato sulla base delle indicazioni della Costituzione apostolica conciliare “Sacrosanctum concilium”. “Un cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare”, e perciò tocca “il patrimonio religioso ereditario che sembrava dover godere d’un’intangibile fissità”. Questo cambiamento riguarda lo svolgimento cerimoniale della Messa: “avvertiremo forse con qualche molestia - spiega il Pontefice - che le cose all’altare non si svolgono più con quella identità di parole e di gesti, alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più attenzione”. Il cambiamento tocca anche i fedeli. E vorrebbe interessare, aggiunge Paolo VI, “ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale”. Bisogna prepararsi, osserva Papa Montini, “a questo molteplice disturbo, ch’è poi quello di tutte le novità, che si inseriscono nelle nostre abituali consuetudini”.
Il passaggio alla lingua parlata
Nel nuovo rito la maggiore novità è quella della lingua. Non è più il latino, ricorda Paolo VI all’udienza generale del 26 novembre 1969, “il linguaggio principale della Messa”. “Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani”. C’è “ragione di rammaricarci e quasi di smarrirci”. Ma “vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana”. Non per questo il latino nella Chiesa scomparirà: “esso rimarrà - afferma Papa Montini - la nobile lingua degli atti ufficiali della Sede Apostolica; resterà come strumento scolastico degli studi ecclesiastici e come chiave d’accesso al patrimonio della nostra cultura religiosa, storica ed umanistica; e, se possibile, in rifiorente splendore”.
Partecipazione e semplicità
Il disegno fondamentale della Messa rimane quello tradizionale, “non solo nel suo significato teologico, ma altresì in quello spirituale”. Il rito, sottolinea Paolo VI, può manifestare “una sua maggiore ricchezza, resa evidente dalla maggiore semplicità delle cerimonie, dalla varietà e dall’abbondanza dei testi scritturali, dall’azione combinata dei vari ministri, dai silenzi che scandiscono il rito in momenti diversamente profondi, e soprattutto dall’esigenza di due requisiti indispensabili: l’intima partecipazione d’ogni singolo assistente, e l’effusione degli animi nella carità comunitaria; requisiti che devono fare della Messa più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana”.
La prima Messa di un Papa in italiano
L’udienza generale del 26 novembre 1969 si lega con un'altra data, quella del 7 marzo del 1965. È il giorno in cui per la prima volta un Pontefice celebra la Messa in lingua italiana. “È il Concilio - scrive nell’edizione di quel giorno l’Osservatore Romano - che esce dal chiuso della basilica vaticana ed entra rinnovatore in tutte le chiese del mondo”. Comincia ad entrare in vigore, aggiunge il quotidiano della Santa Sede, “la riforma liturgica, che mira a riportare tutti i figli di Dio ad un contatto più cosciente e più vivo” con Cristo. “Straordinaria - afferma Paolo VI nell’omelia pronunciata nella chiesa di Ognissanti a Roma - è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura oggi - ricorda il Pontefice - la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo”. Papa Montini all’Angelus sottolinea che quella domenica del 7 marzo del 1965, è “una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico”.
Prima bastava assistere, ora occorre partecipare
Paolo VI si sofferma sull’applicazione della riforma liturgica alla celebrazione della Santa Messa anche all’udienza generale del 17 marzo 1965: “l’assemblea diventa viva ed operante; intervenire vuol dire lasciare che l’anima entri in attività, di attenzione, di colloquio, di canto, di azione”. “L’armonia d’un atto comunitario, compiuto non solo col gesto esteriore, ma con il movimento interiore del sentimento di fede e di pietà, imprime al rito una forza e una bellezza particolari: esso diventa coro, diventa concerto, diventa ritmo d’una immensa ala volante verso le altezze del mistero e del gaudio divino”. “Prima - aggiunge il Pontefice - bastava assistere, ora occorre partecipare; prima bastava la presenza, ora occorrono l’attenzione e l’azione; prima qualcuno poteva sonnecchiare e forse chiacchierare; ora no, deve ascoltare e pregare”.
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