“Long Night”, la lunga notte degli operatori sanitari in Afghanistan
Gianmarco Murroni - Città del Vaticano
Lunghe notti segnate, nel corso degli anni, da un afflusso massiccio di pazienti in continuo ingresso al pronto soccorso, feriti a seguito di esplosioni e attentati. Una realtà quotidiana per gli ospedali afghani che è stata documentata dalla giornalista britannica Lynzy Billing nel suo film “Long Night” che, attraverso le testimonianze di operatori sanitari e pazienti, riflette su 25 anni di assistenza medica fornita da Emergency in Afghanistan. Il documentario sarà presentato stasera, martedì 14 gennaio, presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, alla presenza della stessa autrice e di Filippo Bongiovanni, medico anestesista-rianimatore di Emergency per mesi impegnato nel Paese dell’Asia meridionale. “Sono tornato dall’ospedale di Kabul da un paio di mesi - racconta il dottor Bongiovanni - Ho vissuto l’esperienza di Lynzy Billing mentre era lì con noi. Si è confrontata con la nostra quotidianità, seguendo le emergenze e le attività cliniche e raccontando quello che fa Emergency in Afghanistan nei suoi 3 centri di chirurgia di guerra e nel suo centro per ostetricia e maternità”.
La notte più lunga
Il documentario ha un messaggio molto potente, perché l’autrice, spiega Bongiovanni, "racconta l’Afghanistan attraverso lo sguardo di Emergency e le attività che l’associazione porta avanti ormai da decenni nel Paese. Tutte le facce che parlano nel documentario, tutte le persone che lei intervista, rappresentano la fibra del progetto di Emergency nel Paese: il personale locale, gli afghani impiegati negli ospedali, sono i colleghi con cui ho lavorato gomito a gomito per circa 6 mesi di missione. Il film trasmette molto bene la forza di Emergency in questo contesto”. L’opera mostra l’impegno dei tanti professionisti che operano in Afghanistan, e racconta anche l’importante attività di formazione che l’organizzazione umanitaria porta avanti. “Tutto è incentrato sulla formazione del personale. Il medico, l’infermiere, il professionista sanitario, dal punto di vista della cura, sono una goccia nel mare; i colleghi che lavorano e vivono lì portano avanti davvero il progetto sulle loro spalle. Lavorando in quei contesti si conoscono delle persone che meritano ammirazione, perché sono tra i professionisti medici più esperti del mondo per quanto riguarda le ferite di guerra, sono in grado, dopo anni di lavoro, di affrontare ogni tipo di emergenza chirurgica”.
Il ruolo di Emergency
“Anche il nostro ruolo lì - continua Bongiovanni - è meramente formativo: abbiamo sicuramente un ruolo di primo piano come medici internazionali nella gestione dei pazienti, ma l’obiettivo è anche portare il personale locale a diventare dei professionisti completi e indipendenti”. Fin dai primi giorni in Afghanistan, racconta, “ho percepito quanto sia determinante la presenza di Emergency nel Paese dal punto di vista delle esigenze di salute della popolazione”. Esigenze che con gli anni stanno cambiando: oggi le vittime di guerra nei centri di chirurgia di guerra sono meno rispetto al passato, si parla di un 70% di traumi derivati da esplosioni o ferite d’arma da fuoco. Iniziano a esserci, però, esigenze diverse che mutano con il passare del tempo, alle quali gli operatori sanitari cercano di adattarsi. E sono tante anche le storie che arrivano dal Paese. “Ho conosciuto un’infermiera del Pronto soccorso di Kabul, una donna che racconta come durante la guerra abbia perso prima il marito e poi 4 dei suoi figli per diversi incidenti legati alla violenza della guerra. Ma proprio per questo ha deciso di rimanere a fare l’infermiera afghana in Afghanistan, per poter aumentare l’accesso alla salute della popolazione”.
Esigenze più ampie
Un’altra storia che ha colpito profondamente Bongiovanni è quella di un bambino che “arrivò in seguito a un trauma cranico, con una emorragia cerebrale: aveva bisogno di un intervento al cervello, ma soffriva di emofilia, una malattia genetica che in Italia si tratta facilmente con un farmaco che invece a Kabul era difficile recuperare. Suo padre, quindi, doveva recarsi ogni giorno al Ministero della salute con una autorizzazione per avere il farmaco, ma costantemente si ritrovava a discutere per poter avere la sua dose di medicinale. Alla fine la cura è andata bene e il bambino si è salvato. Questo è un esempio di come da una fase molto acuta di guerra ci si sta spostando su una fase in cui le persone iniziano ad avere esigenze di salute più ampie”.
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