Quando il giornalismo cura le ferite: Giustino Parisse e il sisma de L'Aquila
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Accorgersi della bellezza di un cappuccino bevuto insieme, del tempo passato in profumeria per scegliere una fragranza da regalare, di una passeggiata lungo il fiume Aterno che per la fretta della quotidianità si sceglie di non fare. Sono gli attimi di felicità e di rammarico che Giustino Parisse racconta in un fluire di parole calmo, intervallato da silenzi che aiutano a contenere l’emozione; parole che arrivano a pochi giorni dalla celebrazione del Giubileo della Comunicazione. Sono le istantanee con le quali il giornalista de “Il Centro”, quotidiano abruzzese, racconta “la vita normale” e perfetta di una famiglia “da Mulino Bianco”, così l'ha definta Giustino, nata dal suo amore per Dina e coronata poi dalla nascita di Domenico e Maria Paola. Dina lavora all’università, Giustino al giornale. Ci è arrivato prima di laurearsi seguendo la passione per la cronaca e per la storia soprattutto dei luoghi che abita, conseguendo quel titolo rende orgogliosa la sua famiglia che da sempre ama e cura la terra e che riconosce nello studio la via per un riscatto sociale.
Il “buco”
È così fino al 6 aprile 2009 quando il terremoto de L’Aquila di magnitudo 5.9 irrompe con forza violenta e distruttrice. Sono 309 le vittime accertate, ad Onna, la frazione di 350 abitanti dove vive Giustino, si contano 40 morti, tra di loro i suoi figli e il padre Domenico. Maria Paola aveva 16 anni, frequentava il linguistico, Domenico il primogenito, che portava lo stesso nome del nonno, 18. Giustino non fa pace con questa tragedia. “Mi rimbomba ogni tanto – dice - la voce di mio figlio che mi chiamava quella notte, poi dopo venti secondi non ha parlato più”. Dina accorre da Maria Paola, chiama Giustino ma la speranza di tenerla in vita dura davvero poco. Si apre un “buco” nel cuore dei due genitori sopravvissuti al dolore più grande.
Il pungiglione
Tornano alla mente le parole di Papa Francesco, all’udienza generale del 17 giugno 2015: “noi possiamo togliere alla morte il suo ‘pungiglione’, come diceva l’apostolo Paolo; possiamo impedirle di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio”. È un passaggio necessario quello nel buio ma queste parole a Giustino servono anche per risalire. Racconta di essere legato a Papa Francesco, non solo perché gli ha concesso un’intervista prima della visita a L’Aquila nel 2022, ma perché ha sentito la vicinanza alla sua storia di padre. “Io l’ho sentita come una sorta di grazia, significa che c’è un Papa che pensa a te in quel momento, che conosce il tuo enorme dramma ma significa anche che qualche speranza la devi avere”. Speranza, eccola la parola-chiave del Giubileo 2025, la parola che nel 2009 sembra lontanissima eppure c’è.
Scrivere come terapia
Subito dopo il sisma, Giustino dice di aver agito d’istinto. Tutti i giornalisti arrivati ad Onna lo cercano perché sanno che lui è un loro collega e tutti conoscono la tragedia che l’ha toccato. Sceglie il silenzio fino ai funerali dei suoi figli. “Tutti vengono a chiedermi di raccontarmi, - afferma Gustino tornando con la mente a quei giorni - ma io faccio il giornalista e allora ho pensato che mi potevo raccontare da solo”. Non vuole soffermarsi esclusivamente sulla sua vicenda personale ma vuole abbracciare una prospettiva più ampia, scrive da cronista fotografando quello che ha perso: ricorda le vie di Onna, gli odori delle stalle e quelli del pomodoro fresco per fare il sugo, scrive della sua casa diventata una tomba, “la tomba dei sogni, la tomba dei tuoi figli per i quali ha lottato e poi quella notte scopri che li hai solo portati nel baratro”. Scrive e comprende che mettere su carta le lacrime, il senso di impotenza e di ingiustizia, aiuta veramente, è il potere sanante e terapeutico della scrittura e così non ci si può più fermare. “Da lì – racconta - è partita una sorta di furia, con mia moglie partivamo ogni mattina con la sua macchina e andavamo nei paesi più colpiti dal terremoto, parlavo con le persone, guardavo e raccontavo. Mi ricordo che fra maggio e giugno e i primi di luglio scrissi almeno una ventina di articoli, quasi uno al giorno che poi raccolsi in un libro che si chiama Quanto era bella la mia Onna. Non mi sono fermato, e non lo farò nemmeno domani, non solo a raccontare il terremoto: mi sono spinto a raccontare il post terremoto, cioè la rinascita di questa città, una rinascita contraddittoria fatta di tante cose belle ma anche di tante cose brutte, fatta di furbi, di speculatori ma anche di gente che è convinta che la città deve rinascere e che la comunità soprattutto deve rinascere, perché il problema di un dopo terremoto non è la ricostruzione fisica delle case, che quella prima o poi avviene, è la ricostruzione delle comunità”.
Vivere con speranza
La speranza è lì, nel fare memoria della vita dei propri figli e della propria comunità. Giustino è convinto che ci sia una memoria privata che vede come negativa perché “frena” e ti riporta alla tragedia vissuta e una memoria collettiva per rimettere insieme i tasselli. “Quando tu non hai più nulla, non hai famiglia, non hai casa, non hai la comunità, non hai più gli amici, non hai più nulla, a che cosa ti attacchi? Io adesso sto parlando con voi da casa mia che ho ricostruito con i miei soldi dopo un paio di anni e sto dentro la mia biblioteca, qui ci sono 10.000 volumi, c'è un archivio sterminato con tutte le cose che ho messo insieme prima e anche dopo il terremoto, e questa è la mia memoria. Io quando sto qui sento di essere vivo perché la memoria collettiva mi aiuta sempre”. È questo uno dei segnali che esortano Giustino ad andare avanti con speranza, “perché la speranza- dice – ti aiuta a vivere ma nel presente non nel futuro”. “Mi ha aiutato la fede, pur con i dubbi, e lo scrivere, il raccontare, poi anche per certi versi la forza che mi dà il ricordo dei miei figli. Qualcuno dopo il terremoto mi ha detto: ‘se fosse successo a me quello che ti è accaduto non se ce l'avrei fatta a sopravvivere’. Cosa significa? Che mi sarei dovuto uccidere? Io invece non l'ho fatto e non lo penso, perché credo che se io facessi un gesto del genere non solo ucciderei me stesso, ma ucciderei un'altra volta i miei figli. Se io oggi ho un obbligo, ho un obiettivo, un progetto è quello di mantenere viva la memoria dei miei figli”.
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