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Dall'Ucraina la storia di Maksym, Viktoriia e Makar Dall'Ucraina la storia di Maksym, Viktoriia e Makar 

Ucraina, dove bisogna dare un significato alla morte per apprezzare di più la vita

La storia di Maksym, morto al fronte vicino a Bakhmut, di sua moglie Viktoriia, che attende ancora il suo corpo e che non ha mai smesso di cercarlo, e di Makar, il loro figlio che a 4 anni e mezzo ha dovuto elaborare la perdita del papà

di Giada Aquilino *

Un gruppo di bambini esce da una cantina di un seminterrato, hanno 4-5 anni, sono una trentina. Qualcuno piange, ma non tutti. Qualcun altro ha in mano un peluche. Tutti ben coperti, con cappotti, sciarpe e cappelli di lana. Ad accompagnarli ci sono delle maestre. Un’altra insegnante riprende la scena, non si vede ma si sente la sua voce mentre tranquillizza i piccoli e li invita a rientrare in classe. È finito l’allarme aereo: Kyiv, cronaca di una giornata in una scuola materna. Perché quella non è una semplice cantina, è un rifugio, seppure con i muri colorati, un tappeto per terra, una grande tanica d’acqua. Fuori c’è la guerra, quella che da due anni insanguina l’Ucraina.

Tra quei bambini c’è anche il figlio di Viktoriia, Makar, 4 anni e mezzo. Viktoriia lo accompagna a scuola e poi va a lavoro. È una psicologa. Suo marito Maksym non può farlo. Non c’è. È morto in guerra. Era nella sezione fanteria e ricognizione aerea. La scorsa estate, alla donna è arrivata una telefonata. I commilitoni di Maksym le hanno spiegato che l’uomo, 38 anni appena - lei ne ha uno in meno - era stato colpito in battaglia, a Klishchiivka, vicino Bakhmut. «Aveva dettato loro il mio numero di telefono appena era stato ferito», racconta. «È stata un’operazione di liberazione di una parte del territorio ucraino: i militari russi - le è stato riferito - li hanno lasciati entrare nelle loro posizioni, poi hanno iniziato a colpire con l’artiglieria. Un frammento di mortaio - va avanti Viktoriia - ha colpito Maksym alla spina dorsale e al polmone. Ha perso conoscenza, ma era ancora vivo, mentre il fuoco dei bombardamenti rendeva impossibile evacuare i feriti in quel luogo. I compagni che hanno riportato ferite più leggere sono andati a piedi a un punto di evacuazione ma nelle loro condizioni non sono riusciti a trasportare anche i più gravi. Mi è stato detto che le ferite di Maksym erano “incompatibili” con la vita. Lui non ce l’ha fatta». Maksym attualmente è disperso. Il suo corpo non è stato ancora restituito alla famiglia. «Perché l’intera area è minata ed è stata bombardata dai droni di Mosca per tutti questi mesi. Anche chi va a raccogliere i corpi può morire».

Si ipotizza - chiediamo a Viktoriia - che il corpo di Maksym possa essere in qualche modo oggetto di uno scambio tra le parti in conflitto, pratica non nuova nei teatri di guerra? «Sì, i russi potrebbero avere il corpo, perché ora questo territorio è di nuovo sotto il loro controllo. A volte c’è uno scambio, ma non molti. Ricordo l’odore di tre camion con corpi portati dalla Russia verso uno degli obitori di Kyiv. Nessuno merita di essere trattato così. Quando ciò avviene se ne parla nei telegiornali: stabiliscono una data e poi si aspetta 2-4 mesi per il test del Dna, perché l’identificazione può avvenire solo attraverso gli esami».

Il presidente Volodymyr Zelensky, nella conferenza stampa di domenica scorsa, ha dichiarato che sono 31.000 i soldati di Kyiv morti in battaglia in due anni, mentre quelli russi sarebbero 180.000. Nessun numero sui feriti e i dispersi, per motivi di sicurezza.

Viktoriia intanto ha iniziato un lungo iter burocratico come tanti familiari di soldati ucraini morti in guerra. È incredibilmente lucida mentre racconta. Penso che deve aver imparato a raccogliere tutte le sue forze da quel giorno in cui, il 24 febbraio 2022, è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. Rivive il primo incontro con Maksym nel 2003, «abbiamo studiato insieme all’università», la fatica per mettere su una piccola azienda di falegnameria per produrre mobili, l’impegno per costruire casa vicino Borodyanka, non lontano da Kyiv, la gioia per la nascita del figlio, ma anche il momento in cui Maksym è andato in guerra. «I russi attaccarono il villaggio in cui vivevano i genitori di Maksym, vicino Borodyanka. Ora lì ci sono ancora molte case distrutte, tanti degli amici di Maksym sono stati uccisi. Iniziarono i bombardamenti anche su Kyiv, dove eravamo. Io e mio figlio ci nascondevamo in cantina per evitare i razzi. Dovevamo difenderci, altrimenti ci avrebbero uccisi tutti. Se non avessi avuto un figlio piccolo, sarei andata anch’io a difendere la mia terra», dice la donna.

Viktoriia non ha mai smesso di cercare Maksym.

«Abbiamo fornito tutte le informazioni possibili per la ricerca, nostro figlio e i genitori di Maksym hanno dato il loro Dna e hanno trasmesso una scansione dentale a uno dei gruppi di ricerca. C’è un intero elenco di organizzazioni a cui abbiamo inviato i dati, tra cui la polizia, la Croce rossa ucraina, la Croce rossa internazionale. Mi è stato anche consigliato di cercarlo da sola, sui social media russi. Purtroppo, per coloro i cui cari sono in prigionia, questo si è dimostrato un modo efficace: contattare i russi e chiedere a loro. A volte inviano anche video o foto dei prigionieri ai loro parenti». Le domandiamo se sia in contatto con altre famiglie di soldati scomparsi. «Qualche volta, è molto doloroso», ammette.

Lo è stato anche quando ha dovuto raccontare a Makar la verità su suo padre. «Makar si è sempre preoccupato per Maksym e ha compreso che la guerra è pericolosa. Quando è successo, lui, vedendomi, ha capito che si trattava di qualcosa di brutto e ha cominciato a sentirsi male fisicamente, anche perché suo papà non lo chiamava più. Due settimane dopo la morte di mio marito, siamo andati a fare una passeggiata e abbiamo visto un uomo abbracciare sua figlia. A Makar è salita la febbre. Una volta a casa ho chiamato una collega psicologa, perché sapevo di dovergli dire la verità ma non riuscivo. Lei mi ha consigliato di raccontargli tutto, dando un senso a quello che era successo. Gli ho detto che suo padre era morto e che adesso vive in cielo, sarà sempre con noi e nel nostro ricordo». Makar ha urlato, ha pianto, nei suoi occhi c’era molto dolore. Anche adesso ce n’è, come in quelli di Viktoriia. «Quel giorno gli ho preso la mano e abbiamo pianto insieme. Poi gli ho detto che suo padre era un uomo coraggioso e forte e ha combattuto per noi. Per un bambino, la morte deve avere un significato. Si è sentito un po’ meglio quando ha saputo la verità. L’ignoto sarebbe stato più minaccioso. Pian piano Makar si è ripreso».

Parlando con lei mi rendo conto che anche Viktoriia è forte, non lo è soltanto dal 24 febbraio di due anni fa, probabilmente lo è sempre stata. «Siamo diventati più forti e più consapevoli», assicura. «Apprezziamo ancora di più la vita e gli altri. Non sappiamo quanto ancora vivremo, quindi cerchiamo di vivere con dignità e di crescere». La domanda se voglia lasciare l’Ucraina è superflua. «No, questa è la nostra casa. Non vogliamo vivere in un Paese straniero. Voglio che mio figlio senta la lingua madre, che studi in una scuola ucraina, secondo le nostre tradizioni. Ogni giorno diamo il nostro contributo all’economia del Paese e lo facciamo andare avanti, comprando cibo e vestiti e lavorando qui. È molto importante che l’Ucraina continui a vivere».

* Traduzione dall’ucraino di Svitlana Dukhovych

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02 marzo 2024, 09:30