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Detenuti in cella (archivio) Detenuti in cella (archivio)

Il dramma dei suicidi in carcere: la paura dentro e fuori

Il 2023 si chiude come il secondo anno peggiore di sempre negli istituti di pena italiani, con ben 68 persone che si sono tolte la vita, ma il 2024, iniziato da pochi giorni, ha già cominciato a contare le sue vittime: quattro fino ad oggi. Il presidente nazionale dell’Ordine degli Psicologi Lazzari: più formazione specifica per chi opera in questi contesti

Roberta Barbi – Città del Vaticano

Era il 1992 l’anno in cui ci si cominciò a interessare maggiormente dell’universo carcere e dei fantasmi che lo abitavano: in quell’anno, ad esempio, per la prima volta si iniziò a tenere il conto del numero di detenuti che si suicidavano, una statistica tra le tante. Oggi, a 30 anni tondi di distanza, si è registrato un 2022 record con ben 84 casi, complice forse anche uno strascico di pandemia. Anche l’anno appena concluso non ha certo scherzato: 68 vittime e l’ultimo arrivato, il 2024, con i suoi 4 casi, sta già dimostrando di essere entrato in competizione. Un tema scomodo, complesso, difficile da affrontare come anche da raccontare, quello dei suicidi in carcere, ma contemporaneamente urgente, allarmante, perentorio. Si parte dal tentare di capire le cause, pur in universo in cui convivono problematiche, vissuti, provenienze diverse, accostate solo per il denominatore comune della privazione della libertà personale. “Un gesto così definitivo porta con sé almeno due fattori: un disagio che preesisteva prima del carcere, a cui si aggiunge il carcere stesso che è di per sé un fattore di rischio”, spiega a Vatican News il presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi, prof. David Lazzari, che ci guida in questo viaggio.

Ascolta l'intervista con il prof. David Lazzari:

Vittime sempre più giovani

Uno studio promosso lo scorso anno dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha messo in luce che nel 50% dei casi degli ultimi anni, le persone che si sono tolte la vita avevano pene residue inferiori ai tre anni; nel 62%, invece, si trattava di persone appena entrate nel circuito penale o all’inizio della vita detentiva. “Questo dato significa che a far paura in carcere è sia l’interno che l’esterno – osserva Lazzari– cioè sia il momento iniziale della pena, quando ci si arriva del tutto impreparati e la vita detentiva ha un enorme impatto soprattutto su persone che già presentano qualche fragilità; sia quando si sta per uscire e quel mondo fuori con cui spesso si è perso ogni contatto, non si riconosce più e se ne ha paura”. Ad evitare, dunque, almeno alcuni di questi gesti estremi, a volte per così dire ‘annunciati’, potrebbe servire una presenza maggiore di psicologi e psichiatri per esercitare una vigilanza più attenta sulle situazioni a rischio quali gli affetti da dipendenze e i detenuti con problematiche di natura psichiatrica, ma non solo.

Le misure alternative: un’ipotesi percorribile?  

Al centro del dibattito, oggi più che mai, c’è il tema ‘misure alternative al carcere’, che vengono invocate come soluzione al sovraffollamento ma anche come strumento di prevenzione dei suicidi: “All’estero sono sperimentate molto più che da noi – racconta il presidente degli psicologi– non vanno viste come percorsi premiali, ma funzionali all’obiettivo, ma qui da noi la discussione spesso si limita al confronto tra posizioni ideologiche. Bisogna chiedersi, invece: qual è l’interesse della società? La sicurezza: allora si deve punire per recuperare e non usare il carcere come una scuola in cui imparare a delinquere sempre di più e sempre meglio”. Al dramma dei suicidi tra i detenuti si aggiunge, poi, quello degli agenti di polizia penitenziaria, una delle professioni a maggiore rischio burn out: “Vivono quotidianamente in un contesto stressante da cui vengono contagiati – prosegue – e che peggiora con la problematica del sovraffollamento sempre presente e con il fatto che ormai il carcere è diventato una grande discarica sociale, piena di poveri e di persone con bisogni tra i più diversi”.

Un tavolo per cambiare le cose

Nonostante la figura dello psicologo resti una delle più sottodimensionate nel mondo del carcere, dallo scorso anno l’Ordine nazionale degli psicologi ha aperto un tavolo congiunto con il Dap – Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – con l’obiettivo proprio di valorizzare la figura dello psicologo penitenziario: “Purtroppo non sempre si riesce a stare nei tempi, ma da parte nostra c’è la maggiore disponibilità e volontà di collaborare possibile”. Dal canto suo, in sede di congresso nazionale, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria – Simspe – ha proposto l’istituzione di unità operative aziendali di sanità penitenziaria, appunto, autonome organizzativamente e gestionalmente, ma soprattutto multidisciplinari, in cui professionalità diverse possano lavorare in sinergia: “Il carcere necessita di competenze e conoscenze precise – ricorda in chiusura il presidente degli psicologi italiani – quindi anche gli specialisti in ogni campo è fondamentale che ricevano una formazione adeguata”.

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16 gennaio 2024, 09:35