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Il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog (AFP) Il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog (AFP)

Isaac Herzog: Corriamo il rischio della pace

Il presidente israeliano Isaac Herzog a colloquio con L'Osservatore Romano a trent’anni dagli accordi di Oslo

di Roberto Cetera

«Sono veramente onorato di questo colloquio con “L’Osservatore Romano”. Tanto per il prestigio e la lunga storia del vostro giornale, quanto perché la mia storia politica  è sempre stata intrecciata ai temi del dialogo religioso. E così anche quella della mia famiglia, le cui relazioni con la Santa Sede vanno indietro di diverse decadi».  Isaac Herzog, 62 anni, avvocato, già leader dell’opposizione alla Knesset e presidente dell’Agenzia Ebraica, è dal 2 giugno 2021  presidente dello Stato di  Israele.  Esordisce con questa nota di apprezzamento il colloquio che ci concede in un caldo pomeriggio d’inizio estate nella residenza presidenziale di Gerusalemme. 

Sì, di recente, in Italia si è tornati a ricordare i rapporti di suo nonno Rav Chief  Yitzhak HaLevi Herzog con Pio xii.          

Mio nonno, in effetti ha avuto una relazione veramente  unica con la Santa Sede. E in anni ben precedenti alla Nostra aetate. Egli era nato in Polonia, crebbe a Parigi, in Francia,  dove suo padre era divenuto Rabbino capo e dove lui completò un dottorato alla Sorbona. Poi venne nominato Rabbino a Belfast, dove ebbe modo di conoscere e frequentare gli ambienti cristiani, e più tardi, nel 1919,  diventò Rabbino capo della neonata Repubblica d’Irlanda. In questo ruolo strinse un rapporto molto forte di reciproco rispetto e collaborazione con l’arcivescovo di Derry Joseph MacRory; un rapporto che continuò anche con le autorità ecclesiali di Terra Santa quando nel 1936 mio nonno venne nominato Rabbino capo di Israele. Quando cominciarono a trapelare notizie sulle gravi persecuzioni contro gli ebrei in Germania, le trasmise subito alle istituzioni cattoliche sue corrispondenti, per avviare iniziative comuni di salvataggio e protezione. E fu proprio negli anni dell’immane tragedia del popolo ebraico che iniziò le prime relazioni con Papa Pio XII.  Nel 1944 incontrò a Istanbul l’arcivescovo Roncalli — allora nunzio in Turchia — per prendere in comune carico la sorte degli ebrei ungheresi. Riuscirono a salvarne qualche migliaio, anche se fu poca cosa rispetto ai quattrocentomila ebrei ungheresi uccisi dai nazisti. È nota a tutti la storia di Roncalli che riuscì a bloccare un treno di deportati ebrei.

Ma oltre quella storia, furono migliaia gli ebrei in fuga dai paesi dell’est, e in transito in Turchia, che poterono salvarsi raggiungendo la Terra Santa grazie ai documenti  firmati da Roncalli.

Mio nonno aveva un’autentica devozione per l’arcivescovo Roncalli, e  poi per Papa Giovanni XXIII, per la grande solidarietà fattiva che espresse al popolo ebraico nel momento più tragico della sua storia. Al termine della guerra poi, mio nonno attraversò più volte l’Europa, per recuperare al loro popolo e alla loro fede quelle migliaia di bambini ebrei, che erano stati protetti e custoditi da caritatevoli mani cattoliche durante la Shoah, e avevano perso tutte le loro famiglie. Fu su questo argomento che nel febbraio 1946 mio nonno incontrò a Roma Papa Pio xii. 

Erano molti i bambini?      

Sì. Erano circa dodicimila bambini.  Al termine di quell’incontro Papa Pacelli fece dare ordine a monasteri, conventi, scuole e famiglie ospitanti di rilasciarli. Vorrei sottolineare, a conferma della risolutezza di Pio XII, che all’epoca non c’era ancora lo Stato di Israele, e quindi il rilascio avvenne nelle mani dell’Agenzia Ebraica, che aveva costituito una speciale commissione. Vede, qualche minuto fa, prima che lei arrivasse ho ricevuto una famiglia di superstiti provenienti dalla Slovacchia. Una signora che ora ha 88 anni, ed è venuta da me con i suoi bisnipoti. Ho un programma settimanale di incontri con i sopravvissuti della Shoah, e le loro famiglie, che poi sono resi pubblici attraverso Instagram. Questa settimana ne ho già incontrati due, di 95 e 97 anni. Anche mio zio Jacob, che ha viaggiato in lungo e largo per l’Europa con mio nonno per salvare ebrei e portarli in Israele, è stato un protagonista del dialogo ebraico cristiano. Lo zio Jacob è stato, dopo la nascita dello Stato di Israele, il primo responsabile del dipartimento per le relazioni con le altre religioni; ed ha realizzato il primo accordo tra Israele e Santa Sede. Quando è morto, nel 1972, mentre era direttore generale dell’ufficio del primo ministro Golda Meir, ci giunsero cordoglio e speciali preghiere dal Vaticano. Mi dispiace molto che mio nonno non abbia fatto in tempo a vedere l’uscita di Nostra aetate, che ha costituito un passaggio enorme nelle relazioni tra ebrei e cristiani, e che lo avrebbe reso molto felice.  E, oltre la mia famiglia,  per quanto mi riguarda personalmente,  la mia militanza politica si è sempre svolta all’insegna del dialogo interreligioso, ed in particolare dell’incontro con le comunità cristiane. Ho un ancora vivo ricordo di quando, nel 2000, come Cabinet Secretary, fui incaricato di organizzare l’accoglienza alla straordinaria visita in Terra Santa del Papa Giovanni Paolo II.  Un’esperienza bellissima.  E poi lo stesso Papa mi accolse in Vaticano. Lo stesso si ripeté nel 2009 quando fummo visitati da Papa Benedetto XVI; e anche allora come ministro fui incaricato di organizzare l’accoglienza. E ora è veramente un mio grande desiderio poter incontrare Papa Francesco.  Ho parlato con lui una volta al telefono, ma spero di poterlo conoscere presto di persona. 

Sembra passato molto tempo dalla visita di san Paolo VI, il primo Papa dopo san Pietro a tornare nella terra di Gesù.

Sì, perché in effetti la visita di Papa Montini si svolse in un assetto geopolitico completamente diverso; il Pontefice visitò i luoghi sacri ai cristiani, che a cominciare dal Santo Sepolcro si trovavano allora sotto la giurisdizione del Regno di Giordania, e la Santa Sede allora non riconosceva ancora lo Stato d’Israele. Per questo Paolo VI incontrò il Presidente Sheraz nella “neutralità” di Megiddo, riaffermando il carattere essenzialmente spirituale e di pellegrinaggio della sua visita. Ma, tornando a noi,  oggi in questo mio ruolo di presidente dello Stato di Israele dedico una speciale attenzione e cura alla libertà d’espressione e al benessere delle comunità cristiane qui presenti, ed ho rapporti costanti ed intensi con i patriarchi di tutte le confessioni cristiane presenti a Gerusalemme. E la loro crescita mi sta molto a cuore.

Una piccola minoranza in fondo, che non supera le 200mila persone, ma con un’eredità pesante da conservare e una presenza viva

Sicuramente.  Ma una minoranza che è sale di questa terra. Guardi, vorrei dire ai vostri lettori che le scuole gestite dal Patriarcato e dalla Custodia di Terra Santa costituiscono il miglior sistema educativo presente oggi in Israele: molto apprezzato e di alta qualità. Anche la vita dei cristiani presenti nei territori gestiti dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), e a Gaza, mi sta molto a cuore. In Israele i cristiani godranno sempre della nostra protezione, e, a differenza che in altri Paesi dell’area, non hanno nulla da temere.

Vi è stato tuttavia ultimamente nel Paese un preoccupante incremento di intimidazioni e offese e danneggiamenti  a religiosi e chiese cristiane.

 Si tratta di fenomeni marginali ad opera di fanatici estremisti che condanniamo fermamente. Siamo in contatto con le vostre istituzioni ecclesiali per prevenire e reprimere queste iniziative criminali. Evitiamo di dare clamore a queste azioni, perché  è esattamente ciò che vogliono questi fanatici.

Presidente Herzog, sono passati quasi 10 anni da quando Papa Francesco ospitò a Roma il suo predecessore Shimon Peres e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, ed insieme piantarono un albero di ulivo, simbolo di pace, nei Giardini Vaticani, pregando come comuni figli di Abramo. Nel corso di questi anni quell’“albero”, però, non è cresciuto come avrebbe dovuto. È innaffiato dalla costante preghiera per la pace di Papa Francesco. Come possiamo far tornare a crescere quell’albero?        

Io mi considero un grande fan di Papa Francesco, e partecipo alla sua preoccupazione e al suo impegno per la pace. Nella nostra terra e in tutto il mondo. Spero davvero di avere presto la possibilità di incontrarlo e di parlargli su come possiamo unire i nostri sforzi per la pace. Devo purtroppo registrare che il processo di pace con i palestinesi è al momento in una fase di stallo. Per tutta una serie di ragioni oggettive.  Il primo ostacolo, lo voglio dire con molta franchezza e dolore, è dato dal susseguirsi di azioni di terrorismo contro il nostro popolo, contro civili inermi. E soprattutto ci preoccupano gli atti di terrorismo individuale.  I nostri concittadini vengono attaccati e accoltellati mentre sono con i bambini al parco, o mentre tornano il venerdì sera dalla preghiera di Shabbat. Questo sta procurando un sempre più diffuso sentimento di rabbia e frustrazione. Il terrorismo è inaccettabile, perché è fuori anche delle dure regole di un conflitto. 

Il secondo grande problema è, a mio avviso, la divisione che regna nel campo palestinese tra Gaza e West Bank, cioè tra Anp e Hamas.  Non possiamo scordare che l’obiettivo finale dichiarato di Hamas e di Jihad Islamica, supportata da Teheran, è la distruzione dello Stato di Israele. Come si può dialogare con chi ti vuole distruggere? Io stesso nel maggio del 2021 sono dovuto scendere in un rifugio per ripararmi dai razzi che ci scendevano in testa da Gaza. Purtroppo negli ultimi tempi registriamo un incremento del terrore anche dalla West Bank.

Un terzo elemento frenante gli sforzi di pace è dato dalle perplessità da parte israeliana su quanto potrà accadere in futuro alla corrente leadership palestinese, come potrà svolgersi la  transizione ad un nuovo gruppo dirigente non svolgendosi elezioni ormai da molti anni. Io penso che, per uscire da questo stallo, l’unica vera prospettiva di pace possibile debba crescere dal basso; non può essere solo il frutto di una mediazione politica. I leader debbono tornare a parlarsi. Ma occorre soprattutto che nascano in entrambi i campi iniziative di dialogo e confronto dalla base, che ognuno comprenda i dolori, le sofferenze, dell’altro. Occorre che il processo di pace investa i due popoli, non solo i politici. I due popoli non debbono odiarsi.

Quindi, per rispondere alla sua domanda, sono prontissimo a venire a Roma da Papa Francesco con il mio innaffiatoio (lo dice sorridendo, ndr) per rinvigorire l’ulivo. Come le ho ampiamente detto prima, la mia è la storia, e anche il presente, di un uomo di dialogo. Mettiamo da parte, per un momento, la politica, e anche l’ostilità minacciosa che ci arriva da alcune parti come l’Iran, e investiamo tutti i nostri sforzi per un dialogo aperto tra  ebrei, musulmani e cristiani della regione; tra i popoli: questo è il vero processo su cui lavorare. E sarà un processo straordinario, se sapremo parteciparci con lo spirito degli uomini di buona volontà.  Io vedo già tante iniziative che in questo senso stanno avviandosi in Israele come in Palestina.  Sul piano politico, sicuramente gli Accordi di Abramo hanno costituito una grande spinta in questa direzione.

Appunto, tornando alla politica. Questo nostro colloquio — come quello già pubblicato con il presidente palestinese — è pensato in relazione alla ricorrenza dei 30 anni dagli accordi di Oslo. Le voglio chiedere, con molta franchezza lei crede che i “due popoli in due Stati” sia effettivamente ancora percorribile? La zona “C” in questi 30 anni è molto cambiata. Come può realizzarsi uno Stato palestinese, se manca contiguità territoriale in quell’area? 

      

Per la posizione corrente che ricopro, che rappresenta l’unità nazionale israeliana, non ritengo opportuno entrare nel merito di un dibattito  in corso che anima la nostra comunità politica, anche con posizioni diverse. Ma lei conosce sicuramente la mia storia politica, la mia azione coesiva tra le comunità che vivono in questa terra. Ho rapporti costanti di dialogo con il presidente Abbas. Io penso che i due popoli possano vivere separatamente, in pace tra loro, e che una soluzione possa essere trovata. Alla fin fine, il problema che mi pone riguarda il 4 o 5 % dei territori interessati. Credo che, al di là di questi aspetti,  vi siano tutta una serie di questioni fondamentali, che riguardano la vita delle persone, su cui fin d’ora possiamo sperimentare una proficua collaborazione. Le faccio un esempio: recentemente ho chiesto al presidente Abbas: «Io e lei respiriamo la stessa aria, e beviamo la stessa acqua. Lei vive a 15 minuti d’auto da casa mia. Perché non collaboriamo sulle decisive questioni dell’ambiente e del clima?». La sua risposta è stata un po’ vaga perché credo che al momento non giovi, all’interno della  sua area,  mostrare alcuna forma di collaborazione con noi. Ma sono già tanti i piani su cui collaboriamo, per esempio nella sanità. Per i motivi che ho detto prima, vedo difficile uscire oggi da quello stallo politico del processo di pace, ma penso anche se intensificassimo la nostra collaborazione su questi piani che riguardano la vita della gente potremmo riappacificare i popoli, e prima o poi uscire dallo stallo. 

Presidente Herzog, una pace vera richiede partner forti nei rispettivi campi. Recentemente abbiamo assistito anche in Israele al diffondersi di quella polarizzazione che sembra essere divenuta la cifra dei nostri tempi. 

Sì, è vero. Questo fenomeno, che è mondiale, riguarda recentemente anche Israele. Ma io preferisco leggerlo in termini positivi come una maggiore attenzione e partecipazione alla politica delle diverse comunità che vivono nel nostro paese. Poi nella vita quotidiana, che riguarda l’educazione, la sanità, i servizi civili, l’interazione tra le comunità, mi creda, è molto forte. Guardi, solo qualche giorno fa, la mia assistente Dvora (che assiste al colloquio, ndr) ha organizzato qui nella residenza presidenziale, un incontro per la consegna  di riconoscimenti ai volontari del servizio civile. Con sorpresa, ho potuto constatare che la maggior parte dei riconoscimenti sono andati a cittadini israeliani arabi. Vorrei che un giorno questo possa accadere anche nella società palestinese. Le Chiese Cristiane di questa terra possono fare molto per favorire questo tipo di conoscenza reciproca ed integrazione.

Forse anche a causa della guerra in Ucraina, ma si ha l’impressione che il tema del conflitto israelo-palestinese sia uscito dai radar delle cancellerie internazionali. 

Sicuramente. E non è un bene. Ma penso che dobbiamo allargare il campo d’osservazione all’intero Medio Oriente. Occorre guardare alle difficili situazioni di Siria e Libano, e alla crescente irruenza dell’Iran nello scenario internazionale. E Gaza, Yemen e poi l’Iraq. Ho seguito lo storico viaggio di Papa Francesco in Iraq, il suo bellissimo richiamo alle stelle della progenitura di Abramo, quelle stelle che siamo tutti noi  oggi. Vorrei tanto poter visitare l’Iraq. Ho timore che possa finire nella zona d’influenza dell’Iran. Ma anche guardando al contesto internazionale cerco di essere positivo. Gli Accordi di Abramo, che coinvolgono Marocco, Sudan,  Egitto, Giordania (che è stata la prima a fare la pace con Israele), Emirati Arabi Uniti, Bahrein, e speriamo presto anche l’Arabia Saudita, hanno creato una larga coalizione di Paesi, che pur nelle loro diversità, si adoperano ad una pacificazione permanente di tutta l’area. I rapporti economici che nascono da questi accordi e che riguardano industria, nuove tecnologie, trasporti, turismo, sanità, incrementano il benessere nostro e loro. E lo ripeto: la pace si fonda e si sviluppa sul benessere delle persone. La pace si afferma quando le persone si convincono che non è solo giusta ma anche conveniente.  Vorrei anche aggiungere che la pacificazione di quest’area comporta la pacificazione dell’intero mondo. L’implementazione degli Accordi di Abramo avrà un effetto, ne sono certo, anche sui palestinesi. Anche loro realizzeranno la  praticabilità e la sua convenienza della pace. 

Questo scenario positivo che lei disegna potrebbe essere inficiato dal recente accordo tra Arabia Saudita ed Iran? 

Non sarei sincero se  le dicessi che questo accordo non ci preoccupa. Ma sul piano strategico siamo comunque fermamente intenzionati a continuare i nostri passi verso l’Arabia Saudita. Ci sono già  frequenti e buoni rapporti tra i nostri accademici, imprenditori, scienziati, e giornalisti, con i sauditi.  

Negli ultimi mesi la situazione economica di Israele è tornata ad essere sotto osservazione degli analisti e dei mercati.

La nostra economia rimane un’economia solida e in crescita. Lo scorso anno il nostro pil è cresciuto del 6,5%. Ci sono due elementi a cui dobbiamo comunque prestare attenzione. Innanzitutto i riflessi sulla nostra capacità produttiva della crisi globale degli approvvigionamenti di materie per le nuove tecnologie.  Le quali  comunque rimangono uno degli asset di punta del nostro sistema economico: ogni giorno ci arrivano nuove proposte di investimento nel high tech, soprattutto per l’AI. L’altro elemento è invece interno, e riguarda un certo timore che hanno suscitato tra gli investitori le recenti controversie sulla riforma della giustizia. L’inflazione che era cresciuta nel periodo del Covid è ora rientrata nella normalità grazie agli energici interventi della Bank of Israel.

A proposito di economia, i segnali che vengono da Gaza sono sempre più disperanti. La povertà e la carenza di servizi essenziali dilagano     

Certo, fintanto si spendono milioni di dollari per acquistare razzi e fare tunnel… Quando ci ritirammo da Gaza, mi ricordo ero membro del governo, noi immaginavamo, così facendo, di creare le condizioni per la crescita di un’entità vicina, democratica, economicamente avanzata.  Forse siamo stati ingenui ma immaginavamo Gaza come una Hong Kong del Mediterraneo. Quello che è successo invece dopo è purtroppo sotto gli occhi di tutti, per l’azione di Hamas e della Jihad islamica a partire dal 2006.  I primi a pagarne le conseguenze sono stati i palestinesi fedeli all’Anp, con centinaia di assassinati.  Ma — e questo ci conforta — non c’è alcuna connessione tra i due sistemi di governo”. 

E il Libano?

È un’altra situazione che ci preoccupa. Non tanto per noi, quanto per il povero popolo libanese che non cessa di soffrire da decenni ormai. Le condizioni economiche e di vita sono disastrose. Due ore al giorno soltanto di elettricità nelle case. Mancano anche i medicinali. E sopra a tutto ciò la presenza ormai dominante di Hezbollah, un’altra emanazione dell’Iran. Per proteggerci dai suoi attacchi, non abbiamo certo intenzione alcuna di entrare in quelle zone, ma è bene che sappiano che sapremo difenderci molto efficacemente e duramente. È ora che anche da quelle parti si cominci a ragionare come la pace sia la sola opzione possibile e conveniente.

Signor Presidente la pace che dura è quella che si basa su un compromesso, in cui ogni parte è disposta a cedere qualcosa. Cosa è pronta Israele a cedere sul tavolo di una trattativa con i palestinesi?

Lei mi chiede una risposta che in realtà è prerogativa del governo e non mia. Posso però dirle che un buon accordo di pace si nutre non solo di realismo ma anche di creatività ed inventiva.  Di questo mi piacerebbe parlare con Papa Francesco. Spero presto. Gli porti i saluti del suo “biggest fan” in Israel.

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01 luglio 2023, 15:30