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Emigrate ucraine. A due anni dall’incoraggiamento del Papa, ferite ancora aperte

Era il 28 gennaio 2018, Papa Francesco si recava in visita alla Basilica di S. Sofia a Roma per incontrare la comunità greco cattolica ucraina. In quella occasione il Pontefice esprimeva tutta la preziosità del loro “lavoro, faticoso e spesso poco appagante”. Invitava a non considerarlo solo come un mestiere, ma come una missione, “un grande ministero di prossimità e di vicinanza, gradito a Dio”. Le testimonianze di chi da vent’anni è lontano da casa e di chi si dedica all’accompagnamento umano e spirituale di queste donne

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Le storie dei distacchi familiari forzati in Ucraina, per ragioni socio-economiche, che ha portato migliaia di donne ad emigrare, soprattutto in Italia, Spagna e Portogallo, resta un problema di grande attualità, aggravato dalla guerra.

I racconti delle badanti

“Facevo l’insegnante, la casa dove abitavamo aveva bisogno di una importante ristrutturazione e sapevo che i soldi non sarebbero bastati”, racconta Myroslava, badante nel quartiere Tiburtino. “Anche se lo stipendio era quasi una rarità, non riuscivo a pagare il riscaldamento, da noi fa molto freddo sei mesi l’anno. Ho deciso di lasciare mio marito e mio figlio, quando lui stava per cominciare il liceo. Ho sempre fatto la badante, ho accudito diverse donne anziane. C’era nonna Rosina, la chiamavo così, che mi voleva un gran bene, insieme abbiamo fatto più di duecentocinquanta passamontagna in lana per i soldati impegnati in guerra. Penso solo all'estate, quando posso prendermi due mesi per tornare in Ucraina”. Nel pochissimo tempo libero – racconta Myroslava – si è impegnata a insegnare il canto e le tradizioni ucraine ai bambini delle nuove famiglie miste: “Quando canto sento che canta l’anima, non so spiegare, è un sentimento che ti riempie e ti dà gioia, e non arrivano i brutti pensieri. Eravamo anche in contatto con la comunità di Sant’Egidio, organizzavamo anche qualche gita. Tutto si può fare insieme, anche se siamo diversi”.

Ascolta la signora Myroslava

I figli, ‘orfani bianchi’, spesso rifiutano di rivedere le loro madri

Dionisij Liahovytch, vescovo per gli ucraini in Italia, brasiliano di origine, si è occupato dei migranti ucraini in Spagna e Italia, è stato tra i primi a denunciare il fenomeno dei cosiddetti ‘orfani bianchi’. “L’Ucraina aveva dichiarato l’indipendenza ma tutte le fabbriche erano chiuse, la gente era senza un lavoro. I figli lasciati in patria, mentre crescevano, chiamavano la madre ‘mamma bancomat’. Erano gli orfani bianchi. Si sono autoeducati, in gran parte, e diversi di loro hanno imboccato strade malsane. Tanto che ora sono le madri a piangere i loro figli. Le mamme continuano dunque a essere doppiamente spaesate. Alcune, per la disperazione, sono finite per strada, o addirittura suicide”. Gli psicologi hanno definito questa condizione una vera patologia: “sindrome Italia”.

Ascolta l'intervista a mons. Liahovytch

Il sostegno della fede e un cuore generoso

La Chiesa ha aiutato molto. “Abbiamo 146 comunità ucraine sparse in tutta Italia”, spiega il vescovo, sottolinenando che la fede ha aiutato a trovare una identità. Nel 2018 c’erano 19mila bambini cittadini italiani. “Dobbiamo trovare una soluzione a questo dramma”. Invoca l’aiuto della Cei per l’aumento dei centri di ascolto. “I nostri preti ci aiutano tantissimo”, raccontano altre donne, incontrate alla chiesa greco cattolica nel rione Monti, a Roma. “Al giovedì, nella mezza giornata libera, veniamo sempre qui a pregare, è un conforto grande. Quando vediamo qualcuno che sta male, lo aiutiamo, anche al supermercato. Sappiamo cosa vuol dire essere poveri, il cuore scoppia di dolore”.

La Chiesa è incontro, è il luogo dove guarire la solitudine, dove vincere la tentazione di isolarsi e di chiudersi, dove attingere la forza per superare i ripiegamenti su se stessi. La comunità è allora il luogo dove condividere le gioie e le fatiche, dove portare i pesi del cuore, le insoddisfazioni della vita e la nostalgia di casa (Papa Francesco, 28 gennaio 2018).

La complicazione della guerra

Ora la guerra ha peggiorato molto la situazione: nella parte orientale è una desolazione”, racconta Liahovytch. “Pochi oligarchi, il resto del popolo vive male”. Sofia racconta che pensava di dover restare solo un anno, oppure che avrebbe qualche anno fa potuto rientrare, “invece siamo ancora qua, dopo vent’anni”. La guerra ci ha fatto paura”. Per lei “l’Italia è come un deserto, dove si prega si più, si pensa di più, si ragiona di più e si apprezza di più della vita. Sono venuta qua per aiutare i figli a farli studiare. Noi ce li ricordiamo sempre piccoli. Ci sono momenti di difficoltà, quando ci ritroviamo, poi però spiritualmente, se si vuole, ci si perdona e si va avanti. E’ un continuo cadere e rialzarsi. E la vita continua. La ferita è sempre aperta. Il fatto che possiamo mandare qualcosa a casa non copre tutto. Copre materialmente ma nel cuore non copre niente. Ora c’è whatsapp e possiamo parlare più a lungo, ma toccare e abbracciare i propri cari è diverso”.

Ascolta l'intervista alle due ucraine Sofia e Maria

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28 gennaio 2020, 07:04