Sudan, il racconto di un missionario: una terra senza pace che sogna la tranquillità
Federico Piana - Città del Vaticano
Un segno eloquente, di quelli forti. Che potrebbe preludere ad una svolta decisiva ed inaspettata. La riconquista di Wad Madani non sarebbe solo il successo dell’esercito sudanese che sabato scorso ha strappato dalle mani dei gruppi paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) la città a circa 200 km a sudest di Khartum: potrebbe anche rappresentare la concreta possibilità che la guerra che sta dilaniando la nazione africana da più di due decenni possa subire un affievolimento — forse addirittura uno stop — in alcune parti importanti della nazione che ora grondano sangue e dolore.
Racconto obiettivo
Il pensiero che padre Diego Dalle Carbonare, superiore provinciale dei comboniani in Egitto e Sudan, affida ai media vaticani è frutto dell’attenta e minuziosa analisi di chi conosce bene le attuali dinamiche sociali e politiche del Paese e non dimentica di soppesare anche le vicende più piccole ma significative, spesso ignorate dalle reti d’informazione mainstream. Ne viene fuori un racconto distaccato ma realistico, da osservatore completamente neutrale. «Wad Madani è la capitale dello Stato agricolo di Gezira, l’area più fertile di tutto il Sudan che si trova incastonata tra due fiumi: il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro. È una ricchezza senza confini. Ma Wad Madani non ha un valore immenso solo per questo: è anche un nodo stradale strategico che permette i collegamenti tra le zone di nord-est controllate dall’esercito, come Port Sudan e Cassala, e le altre provincie del sud che da più di un anno erano rimaste separate».
Morte e distruzione
Quando la guerra un giorno finirà, la data della riconquista di Wad Madani sarà inserita nei libri di storia. Ne è convinto, padre Diego. Come è convinto che i progressi delle forze governative a Khartum e poi verso ovest, sulla strada che da Kosti conduce ad El Obeid, alla fine accelereranno il parziale ridimensionamento del conflitto. «Ma per ogni centimetro che avanzano sganciano un’enorme quantità di bombe e il numero di morti è altissimo, come incalcolabili sono i danni, una distruzione totale».
Zone maledette
Il Darfur ed il Kordofan rimarranno zone maledette dove il sangue continuerà a scorrere ancora per molti anni: «Per queste parti del Paese non credo che finirà molto presto. Del resto non ci dobbiamo dimenticare che la guerra che stiamo vivendo non è altro che il frutto di vent’anni di conflitto in Darfur, non è certamente iniziata nel 2023 con gli scontri a Khartum».
Se mai le armi dovessero tacere in una sola fetta di un Sudan piagato dalle pallottole e dai missili non sarà certo per una pace voluta e concordata ma per la vittoria schiacciante di un contendente sull’altro. Eppure tutto questo farebbe tirare lo stesso il fiato ad una popolazione stremata dalla violenza che vorrebbe tornare presto alla normalità, indipendentemente da chi sia il vincitore. «In alcune città controllate dal governo le scuole sono state riaperte e contemporaneamente si sono ripresi anche gli esami delle secondarie. Un segnale eloquente che si vuole voltare pagina».
Alla ricerca della normalità
La stessa sensazione di una agognata normalità, il missionario l’ha avuta recentemente camminando per le vie di Port Sudan, ormai assurta a capitale de facto: «Gli abitanti sono più che raddoppiati, nuovi edifici sono in costruzione, mentre nelle sue estreme periferie ci sono ancora i campi profughi». Anche le celebrazioni natalizie si sono svolte come se la guerra fosse solo un brutto sogno. «Nelle nostre cappelle c’era più gente che negli anni scorsi mentre il giorno di Natale il capo dell’esercito e del governo, il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, si è recato a sorpresa nel cortile di una scuola dove si era appena conclusa la messa del mattino per salutare i cristiani in festa. Nel suo breve discorso ha voluto mettere in evidenza il legame di pace che unisce cristiani e musulmani».
Sfollati, problema scottante
Un altro segno di ricercata tranquillità in una nazione dove più del 97% della popolazione è di religione islamica e dove, a causa delle recrudescenze degli scontri, i sacerdoti che hanno potuto sono diventati profughi insieme alla moltitudine di persone che sta abbandonando le proprie città nel tentativo di salvarsi la vita. «In molti stanno fuggendo in Egitto, altri preferiscono rimanere sul confine in campi allestiti a Rabak, nei pressi del Nilo Bianco. La maggioranza, però, sceglie il Sud Sudan: finora coloro i quali hanno varcato il confine con il sogno di arrivare a Juba sono quasi due milioni». E pensare che anche il Sud Sudan non se la passa poi tanto bene tra violenze e una povertà senza limiti: il rischio è quello di andare di male in peggio.
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