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Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana 

Bassetti: Chiesa "in uscita" contro la secolarizzazione consumistica

Intervista del direttore de "L' Osservatore romano" al cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana. Dopo l'11 settembre, spiega, si è affermata una cultura identitaria escludente, quella dell'amico/nemico, che nega la pietas e l'universalismo cattolico. Servono "cristiani autentici, miti e rivoluzionari" che sappiano "andare contro lo spirito del mondo: egoistico, nichilistico, consumistico e xenofobo"

Andrea Monda - Città del Vaticano

Con il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia - Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale italiana si conclude la lunga serie di interviste che, a partire da quella a Giuseppe De Rita pubblicata nell’edizione del 22 maggio, "L’Osservatore Romano" ha realizzato col proposito di avviare un dibattito, aperto a credenti e a non credenti, sulla profonda crisi che la società attuale sta vivendo e sul ruolo che la Chiesa può svolgere per ridare speranza all’uomo contemporaneo.

La nostra serie di interviste prende le mosse da una riflessione di Giuseppe De Rita che rinvia all’Italia dei comuni medioevali in cui a fianco all’autorità civile, che garantiva la sicurezza, c’era una forte autorità spirituale, capace di offrire un senso all’esistenza dei cittadini. Senso e sicurezza, due istanze che hanno bisogno della cooperazione di due autorità distinte, forti e alleate. Chi è intervenuto successivamente ha osservato come oggi entrambi le autorità sono in crisi. Secondo lei quali sono le condizioni oggi dello Stato e della Chiesa?

R.- Quando penso all’eccezionale “cambiamento d’epoca” richiamato dal Papa ho in mente due grandi fenomeni: la globalizzazione che ha superato i vecchi confini geografici, culturali e morali del pianeta, spostando sempre più a Est il baricentro del mondo; e la crisi economica del 2008 che ha rotto ogni tipo di certezza sociale, psicologica e identitaria della società occidentale e in particolare dell’Europa. A questi movimenti tellurici che hanno inevitabilmente reso più debole le strutture degli Stati nazionali e più difficile la vita delle persone, si è aggiunta una secolarizzazione che aggredisce le basi della vita della Chiesa. Una secolarizzazione non solo ideologica e laicista ma banalmente consumistica e nichilista. Oserei dire una secolarizzazione di sopravvivenza mondana: “si salvi chi può”, “difendo prima i miei interessi” e il “mio desiderio è un diritto” potrebbero essere gli slogan. In questa situazione il messaggio cristiano inevitabilmente scandalizza l’uomo moderno più che in passato. Scandalizza la sacralità della vita, la santità della famiglia e scandalizza la povertà, gli scarti della società come i clochard o i migranti.

Nella sua intervista Massimo Cacciari ha definito l’Europa “vecchia e sterile” e lui, non credente, ha indicato la Chiesa cattolica come “fertilizzante”. Come è avvenuto in passato la Chiesa è la speranza di una ripresa per una società che appare smarrita, impreparata rispetto a un “cambiamento d’epoca”. Come potrebbe svolgere questo ruolo da “enzima” (il lievito evangelico), oggi la Chiesa cattolica?

R.- La Chiesa senza dubbio deve saper cogliere i segni dei tempi e aver discernimento. Ma più di tutto deve saper cogliere i frutti dello Spirito Santo, mettersi in ascolto e in preghiera. Per essere autenticamente il sale della terra, non servono progetti di ingegneria pastorale, ma serve l’umiltà e la fede dei piccoli. Occorre una Chiesa che mostri al mondo la croce gloriosa di Cristo e che annunci la buona novella con gioia pura senza settarismi e fanatismi. Un Chiesa “in uscita”, più attenta “ad aprire processi” piuttosto che “segnare traguardi”.

Le tradizionali classi politiche si sono fatte trovare impreparate, inadeguate ad affrontare una crisi che secondo alcuni è innanzitutto antropologica: l’innalzamento dell’aspettativa dell’età media, la tecnologia e le comunicazioni e infine la paura che gioca anche a livello politico grandi effetti... ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di essere umano?

R.- Ancora non siamo di fronte a un nuovo tipo di essere umano, ma da molto tempo è stato messo in dubbio lo statuto ontologico dell’uomo. È stato messo in crisi da un mondo che pensa di poter vivere senza Dio e che ha fabbricato un vitello d’oro costituito dal proprio “Io”. È in profonda crisi la cultura dell’umanesimo europeo. Soprattutto è in una grave crisi l’umanesimo laico che sembra essere diventato sempre più un umanesimo ateo come diceva de Lubac. Per questo motivo, ho spesso auspicato la ricerca di un nuovo umanesimo che sia al tempo stesso personalista-cristiano e anche fecondo di un nuovo incontro con i non credenti. Questa alleanza nel nome della dignità della persona umana è fondamentale.

Oggi sembra che l’uomo occidentale si trovi tra Scilla e Cariddi, da una parte liquida la religione come una vecchia fantasia superstiziosa che porta con sé fondamentalismo, fanatismo e violenza, dall’altra sente il vuoto, avverte la mancanza della religione, e si aggrappa anche a un malinteso senso della identità e della comunità, per cui sono visti con favore anche i simboli religiosi esibiti come strumenti d’identità, il che però equivale a un tradimento dell’essenza della religione stessa.

R.- Non si tratta di una novità. L’uomo ha sempre cercato di farsi dio di se stesso: recidendo il dialogo con il Padre o strumentalizzando gli insegnamenti della religione. Questo mi sembra più evidente dopo la grande frattura dell’11 settembre 2001: da un lato, si è accelerato, in nome della “qualità della vita” e dei “diritti individuali”, il distacco dell’uomo da una visione cristiana dell’etica. Dall’altro lato, si è andata affermando, in nome del “nemico esterno”, islamico o migrante, una cultura identitaria escludente, nella logica dell’amico/nemico. In entrambi i casi c’è una negazione della caritas, dell’humanitas, della pietas e dell’universalismo cattolico. Oggi più che mai, i cattolici devono avere “fede retta e speranza certa” come diceva san Francesco, senza mettersi in fila dietro i pifferai magici di turno. I falsi profeti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Questa è la condizione e la sfida del cristiano di ogni tempo. I simboli religiosi valgono solo nel contesto di una fede vissuta, altrimenti sono una sterile ostentazione.

Alcuni tra gli intervistati (Giovanni Orsina, Emma Fattorini) hanno parlato di profezia, una dimensione richiamata dalle tensioni che contraddistinguono la nostra epoca e dalla figura di Papa Francesco, una dimensione urgente per rimettere in movimento un mondo che sembra impantanato nella palude del rancore che nasce dal senso dell’ingiustizia, della diseguaglianza e dello smarrimento di fronte al futuro. A lei che è un grande conoscitore della figura di La Pira voglio chiedere: è di un profeta che ha bisogno la società italiana?

R.- In tutta franchezza basterebbero dei cristiani autentici: al tempo stesso miti e rivoluzionari. La mitezza perché richiama la fede e la sobrietà dei comportamenti. L’essere rivoluzionari perché significa andare contro lo spirito del mondo: egoistico, nichilistico, consumistico e xenofobo. Ovviamente, abbiamo senza dubbio bisogno di uno sguardo profetico. E noi come Chiesa italiana cerchiamo di mettere in pratica la profezia di La Pira sul Mediterraneo dando vita a un incontro con tutti i vescovi del Mediterraneo, nel nome della pace, dei poveri e del dialogo tra culture e fedi diverse.

Si è parlato molto di un sinodo per la Chiesa italiana negli ultimi tempi. Su questo punto le giro infine una domanda che mi ha fatto Emma Fattorini quando ha parlato di sinodalità che «non è un metodo, o una strategia, è un’azione credente: domanda fede. Chi ha il governo nella Chiesa, ha il dovere di discernere e favorire un cammino comune. Ma la domanda è se siamo una Chiesa di popolo, e di popolo in cammino?

R.- Io penso che, nonostante le tante difficoltà, siamo ancora una Chiesa di popolo, sebbene un popolo molto più piccolo di quello di 50 anni fa. E questo popolo, sebbene si trovi a vivere nel deserto delle città — come diceva profeticamente Carlo Carretto — in cui soffiano dei fortissimi venti contrari e sembra mancare il cibo spirituale, continua a camminare. Esistono tantissime realtà ecclesiali, alcune microscopiche, altre più grandi, altre ancora di grande tradizione, che vivono intensamente la propria dimensione cristiana: nelle parrocchie e nelle associazioni, nei movimenti e nelle comunità, nel volontariato o nei piccoli gruppi di preghiera. Tutte queste realtà che affondano le radici nella società e nel popolo italiano — e quasi mai compaiono sui media — vanno valorizzate aiutate e favorite nei loro cammini di fede. La multiformità della Chiesa italiana io penso che sia una straordinaria ricchezza. Una ricchezza che va aiutata soprattutto in una direzione: la fraternità fra laici e presbiteri, fra presbiteri e vescovi e la profonda comunione di tutti con il Santo Padre Francesco.

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05 agosto 2019, 15:30