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I sette vescovi romeni martiri, insieme in processione I sette vescovi romeni martiri, insieme in processione

Romania. Beati i 7 vescovi greco-cattolici martiri del comunismo

Nel Campo della Libertà di Blaj, in una solenne cerimonia presieduta da Papa Francesco durante il suo viaggio apostolico in Romania, salgono agli onori degli altari i presuli che donarono la propria vita per stare accanto alla loro gente negli anni più bui della dittatura

Roberta Barbi – Città del Vaticano

Ci sono notti più nere delle altre, notti che sembrano più buie e più lunghe e in cui ci sentiamo più soli. Fu una notte così, quella tra il 28 e il 29 ottobre 1948, quando in molti furono prelevati dalle loro case e incarcerati nella prigione di Sighet. Per lo più erano religiosi o fedeli professi, tra cui i 7 nuovi Beati di oggi, allora tutti vescovi della Chiesa greco-cattolica di Romania. Mons. Vasile Aftenie, vescovo di Ulpiana e ausiliare dell’Arcieparchia di Alba Iulia e Făgăraş; mons. Valeriu Traian Frenţiu, vescovo di Oradea; mons. Ioan Suciu, amministratore apostolico dell’Arcieparchia di Alba Iulia e Făgăraş; mons. Tit Liviu Chinezu, vescovo ausiliare dell’Arcieparchia di Alba Iulia e Făgăraş; mons. Ioan Bălan, vescovo di Lugoj; mons. Alexandru Rusu, vescovo di Maramureş; mons. Iuliu Hossu, vescovo di Cluj Gherla. Le stelle del loro martirio, però, brillano di una luce potente, capace di illuminare il nostro cammino verso il Cielo e quello di tutta la Chiesa. “Dove c’è morte per amore dei propri ideali – spiega il card. Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi – gli ideali stessi diventano luce per gli altri. Così anche allora, si pensava che tutto fosse finito, invece la giornata di oggi dimostra che non è così. Si rinnova la logica del mistero pasquale: Gesù, sconfitto, da Risorto diventa salvezza per l’umanità”. (Ascolta l'intervista completa)

Dove la religione era l’oppio dei popoli

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Romania diventa uno Stato comunista nell’orbita del Patto di Varsavia. Con l’abdicazione del re e l’instaurazione della Repubblica popolare romena, tra il 1947 e il 1948, di fatto si stabilisce un regime “satellite” di quello di Mosca durante il quale, per oltre 40 anni, si attuerà la più sanguinosa persecuzione anticattolica di tutto il Novecento. “La Chiesa greco-cattolica è una chiesa di rito orientale ma in comunione con la Chiesa di Roma e quindi con il Papa – spiega il porporato – il Papa dai comunisti veniva visto come rappresentante dell’Imperialismo e le sue parole e le sue azioni come l’ingerenza di una potenza straniera nella sovranità nazionale”. Come in un’escalation dell’orrore, la persecuzione si svolse in tre tempi: il tentativo di persuasione, l’arresto, l’eliminazione dei religiosi. Ai sacerdoti e ai vescovi appartenenti alla Chiesa greco-cattolica veniva chiesto di rompere con la Santa Sede; come in una sorta di crudele spoil system che svilisce la grandezza della fede, venivano loro offerte cariche all’interno della Chiesa ortodossa.

Il no deciso dei sette Beati

Il comunismo romeno voleva costruire “l’uomo nuovo”, che non aveva bisogno di nessuno, neppure di Dio, invece gli uomini nuovi in Romania erano proprio uomini di Dio, tra cui i sette nuovi Beati.  “Il martirio è il seme della conversioneaggiunge il cardinale – anche Gesù ha detto che se il seme non muore non porta frutto”. E martiri come “seme di nuovi cristiani” li aveva definiti già Giovanni Paolo II nel discorso ai vescovi romeni durante il suo viaggio in Romania il 7 maggio 1999: “Figure illustri di discepoli di Cristo vittime di un regime che, ostile a Dio per il suo ateismo, calpestò anche l’uomo, fatto a immagine di Dio”. Tutti e 7 furono imprigionati e torturati; solo 3 di loro morirono in un lager. “La nostra fede è la nostra vita!”, rispondevano quando veniva loro chiesto di abiurare e di rinnegare la fedeltà al Papa. Vasile Aftenie era professore di teologia a Blaj; Valeriu Frenţiu era molto attivo nell’apostolato; Ioan Suciu, il più giovane, pubblicò un’ottima versione del catechismo per i giovani; Tit Liviu Chinezu era cappellano nelle scuole; Ioan Bălan fu nella commissione per la codifica del diritto nelle Chiese Orientali; Alexandru Rusu era direttore del giornale cristiano “Unirea”. E poi c’era Iuliu Hossu, un simbolo della lotta contro l’ateismo in clandestinità.

Iuliu Hossu, il cardinale in pectore di Paolo VI

È forse la figura più nota tra i 7 nuovi Beati: Iuliu Hossu fu cappellano militare durante la Grande Guerra, poi nominato vescovo di Gherla. Famoso per il suo impegno pastorale in favore della Transilvania, fu arrestato insieme agli altri in odio alla fede cattolica quell’orrenda notte. Dopo la prima liberazione dal carcere di Sighet, continuò a esortare i fedeli a professare la propria fede con coraggio e cercò di riorganizzare, seppur in segreto, le strutture soppresse della Chiesa cattolica. Costretto dalle autorità al domicilio coatto, la sua storia giunse alle orecchie di Paolo VI, che nel 1969 lo creò cardinale in pectore: “Quando le circostanze non consentono al Papa di pubblicare il nome di un nuovo cardinale – conclude il card. Becciu – egli tiene il suo nome nel cuore”. Di fatto era per Hossu un’occasione di lasciare un Paese per lui molto pericoloso e rifugiarsi a Roma, ma questi rifiutò per restare accanto al suo popolo. Le sue ultime parole prima di morire, nel 1970, provato dagli eventi, furono per il vescovo Todea: “La mia lotta finisce, la tua continua”.    

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Iuliu Hossu, il cardinale in pectore di Paolo VI

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I vescovi martiri in prigione
01 giugno 2019, 07:00