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Covid, padre Casalone (PAV): superare il nazionalismo vaccinale

Prosegue nel mondo la gara nella sperimentazione di un vaccino sicuro per sconfiggere il coronavirus. Nella nostra intervista, il gesuita della Pontificia Accademia per la Vita avverte sulla necessità di un passaggio effettivo a una piena interdipendenza tra Stati e persone: "Arrivare a una solidarietà intenzionale non è cosa automatica - precisa - occorre un momento di libera e consapevole conversione"

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Secondo i dati della Johns Hopkins University, i casi di coronavirus nel mondo hanno superato la soglia dei 61 milioni. Dall'Organizzazione Mondiale della Sanità arriva l'appello alla massima vigilanza in Africa, dove nell'ultimo mese i contagi sono aumentati del 20% in 19 Paesi. L'Oms raccomanda gli Stati africani di prepararsi alla vaccinazione di massa e invita alla solidarietà internazionale visto che il costo qui è valutato, per le sole categorie prioritarie, in quasi cinque miliardi di euro. Intanto il Parlamento europeo approva la proposta della Commissione di non imporre l'Iva sui futuri vaccini e sui kit per i test Covid-19 fino alla fine della pandemia. Ci si chiede se la 'gara' per arrivare a un vaccino sicuro e nei tempi più rapidi possibili abbia innescato finora un processo che si può definire di speculazione. Risponde il gesuita, nonché medico, padre Carlo Casalone, della Sezione Scientifica della Pontificia Accademia per la Vita:

Ascolta l'intervista a padre Casalone

R. - Ci sono segnali di tentativi nelle due direzioni: sia per trarre vantaggi speculativi, sia per tenerli a freno. Fra i primi, vediamo gli annunci un po' prematuri di scoperte di vaccini con tempistiche anche un po' sospette - se pensiamo a manovre finanziarie speculative di borsa - da parte sia di aziende farmaceutiche che di Stati. Si è parlato, ad esempio, di 'nazionalismo vaccinale': diversi Stati si adoperano per avere il proprio vaccino in tempi più rapidi per ottenere prestigio e vantaggi, procurandosi per primi dosi di vaccino per i propri abitanti. Tra le manovre che provano a controllare questi squilibri, si vedono tentativi di accordi per regolare costruttivamente la collaborazione. Diversi Paesi si sono impegnati a cercare intese sul piano internazionale: non solo per accelerare la ricerca, ma anche per rendere disponibili i test e i trattamenti. Le due cose sono quindi entrambe presenti.

Non sono mancate, tra gli scienziati, polemiche sul modo di comunicare le novità relative alle fasi di sperimentazione. Secondo lei, l'informazione giornalistica e quella dei medici stanno funzionando?

R. - Giustamente si è parlato di «infodemia», una specie di epidemia informativa. La comunicazione contemporanea è molto più capillare e reticolare che nel passato. Certo, occorrerebbe, da parte di chi riceve le informazioni, una capacità di controllare le fonti, di interpretare con senso critico, di comprendere lo statuto dei dati scientifici, che sono sempre in divenire. Ma queste sono materie complicate e molto articolate. Inoltre, gli stessi scienziati sono esperti di un versante della questione, cioè quello che riguarda i dati sperimentali e le loro incertezze. Sono invece meno avvertiti sugli effetti che informazioni, pur scientificamente sostenibili, possono produrre in chi ascolta: notizie sulla vita e sulla salute hanno un forte impatto emotivo. Inoltre non manca una inclinazione a fare audience da parte di certi mezzi di comunicazione. Un altro aspetto che penso abbia inciso sulla dimensione comunicativa è che alcune informazioni possono avere una notevole rilevanza economica e politica, per cui vengono tenute, non sempre a ragione, riservate. Si vede quindi come l'insieme sia molto difficile da gestire. Per ridurre le distorsioni, anche piuttosto marcate, che si sono verificate è sempre utile trovare modi di un sempre migliore coordinamento.

Dai comportamenti della gente in questo frangente così rischioso a livello planetario, come valuta il livello di preoccupazione che ciascuno ha per il bene comune?

R. - Penso che sarebbe un grosso errore da parte di tutti considerare la pandemia come un evento solo sanitario. Sono in gioco molte altre dimensioni che riguardano i modelli di sviluppo, il rapporto con la nostra casa comune, con le risorse naturali. È vero che abbiamo avuto una percezione maggiore del fatto che siamo interdipendenti su diversi piani: sanitario, economico, sociale. Però, il passaggio da una interdipendenza di fatto a una solidarietà intenzionale non è automatica. Occorre un momento di libera e consapevole conversione. Abbiamo toccato con mano come non sia sufficiente parlare della libertà come autodeterminazione. Quello che faccio io non coinvolge solo me, ma anche gli altri. La salute personale è strettamente connessa alla salute pubblica. Così il bene comune non può essere perseguito senza un sussulto della coscienza che traduca il dato di fatto in solidarietà responsabile. Se questo non avviene la stessa scoperta che il mio benessere dipende anche dagli altri può alimentare la competizione e la rivalità, senza alcun impegno per l’interesse generale.

È anche il caso dei cosiddetti negazionisti...

R. - La posizione di chi rifiuta di riconoscere la situazione della pandemia e delle misure per affrontarla non va trascurata. Certo può essere strumentalizzata, però occorre capire cosa lo alimenta. Si basa anche su parziali verità, che vengono indebitamente accentuate o assolutizzate. È vero che nella storia delle epidemie e dei vaccini ci sono delle opacità, degli interessi che possono degenerare, delle manipolazioni informative da parte di aziende e di Stati. Questi aspetti non vanno trascurati, ma corretti. Il negazionismo sollecita una maggiore trasparenza e onestà da parte di tutti, in modo da agire e comunicare in modo più rispettoso e veritiero.

Di fronte alla possibilità, pare sempre più vicina e concreta, di sottoporsi a un vaccino contro il coronavirus, alcune indagini rivelano che ci sarebbe una consistente parte di popolazione che dichiara di avere intenzione di non vaccinarsi. Come spiega questo atteggiamento e come lo valuta?

R. - Il tema della resistenza ai vaccini andrà gestito con cura e attenzione cercando di far capire la scelta di vaccinarsi o meno non ha ricadute solo su chi la compie, ma anche su tutti. Un rifiuto a vaccinarsi potrebbe aumentare seriamente i rischi per la salute pubblica. Infatti in questo modo coloro che non potranno vaccinarsi si troveranno esposti a maggiore rischio di infezione (es. immunosoppressi), perché per evitare il contagio possono contare solo sulla copertura vaccinale altrui (e sull'immunità di gregge). Inoltre, l’ammalarsi determina anche una maggiore pressione sui sistemi sanitari per l‘aumento dei ricoveri e un peggioramento dell’assistenza sanitaria per tutti.

Abbiamo più volte sentito dichiarazioni, anche da parte di politici, in cui è parsa evidente una certa 'disponibilità a sacrificare' gli anziani, falcidiati dal virus, perché categoria sociale non più produttiva. Quale pericolo si annida dietro?

R. - Il pericolo è di non considerare le persone con uguale dignità, ma di fare delle valutazioni sulla vita umana in base a criteri di efficienza e di prestazioni. Così si arriva a emarginare e a «scartare» chi è più vulnerabile. Questo non esclude certo che quando ci si trova in situazioni di emergenza che non consentono di fornire a tutti le cure che si darebbero in situazioni ordinarie, occorre trovare dei criteri di preferenza. Però questi non devono mai condurre a un giudizio comparativo sulla dignità della persona e della sua vita, che è sempre uguale per tutti. Devono piuttosto essere stabiliti sulla valutazione delle condizioni cliniche e sull’impiego delle terapie disponibili nelle concrete circostanze in cui si trova.

Moltissimi medici e operatori sanitari sono rimasti vittime in prima linea. Anche alla luce del suo essere un medico, crede che il sistema sanitario, almeno in Italia, stia tenendo? Bisognava fare di più ed eventualmente cosa per essere più preparati alla seconda ondata? Crede che ne usciremo più sfiduciati o più indulgenti rispetto alla gestione delle risorse in questo ambito?

R. - Da questa emergenza credo che dobbiamo imparare diverse lezioni. Circa la sanità pubblica, è chiaro che abbiamo privilegiato negli anni recenti un modello basato più sulle cure specialistiche delle malattie e sull'ospedale piuttosto che sulla tutela della salute e sul territorio. Sono due modi diversi di investire le risorse e che dobbiamo meglio bilanciare di quanto non abbiamo fatto negli ultimi anni. Si richiede davvero un maggiore impegno per tutelare la salute, prevenire le malattie e una rete territoriale più solida, che negli ultimi anni è stata indebolita.

C'è qualcuno che arriva a considerare la pandemia come il discrimine per il salto nel post-umano. Lei cosa ne pensa?

R. - Penso che potremo imparare a tenere maggiormente presente come la vita di ciascuno sia strettamente collegata non solo a quella degli altri, ma anche al (nostro) corpo. È vero che la dimensione digitale ha fatto irruzione nella nostra vita in modo più evidente e massiccio. Però abbiamo anche sperimentato quanto ci manchi l’incontro con gli altri che chiamiamo «in presenza». Abbiamo colto quanto sia parziale la comunicazione attraverso gli schermi e quanto sia più ricco potersi esprimere con tutta la gamma delle nostre potenzialità, che prima davamo per scontate, ma che ora appaiono in tutta la loro importanza. Anche in sanità potremo avvalerci delle risorse dei robot e degli algoritmi, ma non si potrà prescindere dagli altri registri che sono indispensabili nella relazione di cura e nell’accompagnamento nei momenti di sofferenza.

 

 

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27 novembre 2020, 14:30