Padre Juan Antonio Guerrero Padre Juan Antonio Guerrero 

Guerrero: quello della Santa Sede è un bilancio di missione

Intervista con il Prefetto della Segreteria per l’Economia: il Vaticano non rischia il default, non siamo un’azienda e non tutto può essere misurato come deficit. Viviamo grazie all’aiuto dei fedeli e paghiamo 17 milioni di euro l’anno di tasse all’Italia. Lavoriamo per un sistema trasparente e per la centralizzazione degli investimenti

ANDREA TORNIELLI

Da pochi mesi Prefetto della Segreteria per l’Economia, chiamato da Papa Francesco a portare a termine una riforma che punta alla trasparenza economica della Santa Sede e a un uso sempre più efficiente dei beni e delle risorse che sono al servizio della sua missione evangelizzatrice, padre Juan Antonio Guerrero Alves si trova ora a doversi confrontare con la crisi causata dal Covid-19. E questa è una intervista che non avrebbe voluto fare. “Non peraltro – spiega – ma perché penso che nella Chiesa siano altre le cose importanti. E perché avrei voluto aspettare ancora prima di parlare. Ma questo tempo è una sfida per tutti. Dunque anche per noi. E richiede chiarezza”.

Padre Guerrero, la settimana scorsa si è tenuto un incontro Interdicasteriale dedicato alla situazione finanziaria dello Stato della Città del Vaticano e della Santa Sede. Può dirci qual è la situazione?

Tutto il mondo sta attraversando una crisi caratterizzata da due fattori: dalla sua eccezionalità e dall’incertezza sulla sua durata. Quello che stiamo vivendo è un tempo unico. Un tempo difficile che ci pone davanti alle nostre responsabilità. Dobbiamo trovare il modo per assicurare la nostra missione. Ma dobbiamo anche capire cosa è essenziale e cosa non lo è. Allo stesso modo non tutto può essere misurato solo come deficit, e nemmeno come mero costo, nella nostra economia.

In che senso?

Non siamo una impresa. Non siamo una azienda. Il nostro obiettivo non è fare profitto. Ogni Dicastero, ogni Ente, compie un servizio. E ogni servizio ha dei costi. Il nostro impegno deve essere quello della massima sobrietà e della massima chiarezza. Il nostro deve essere un bilancio di missione. Cioè, un bilancio che mette in relazione i numeri con la missione della Santa Sede. Questa che sembra una premessa, è la sostanza della questione. E dunque non va mai persa di vista.

Può darci qualche numero?

Quanto ai numeri, quelli della Santa Sede sono molto più piccoli di quanto in tanti immaginano. Sono più piccoli di una media università americana, per esempio. E anche questa è una verità spesso ignorata. In ogni caso i conti ci dicono che tra il 2016 e il 2020 sia le entrate che le uscite sono state costanti. Le entrate intorno ai 270 milioni. Le spese in media intorno a 320 milioni, a seconda dell’anno. Le entrate derivano da contributi e donazioni, rendimenti degli immobili e in misura minore dalla gestione finanziaria e dalle attività degli Enti. Un contributo importante è quello del Governatorato dello Stato Città del Vaticano; e dipende in larga (ma non esclusiva) misura dai Musei oggi chiusi e nella restante parte dell’anno in probabile difficoltà per la ripresa che sarà lenta. Se guardo solo ai numeri e alle percentuali, potrei dire che le uscite si distribuiscono più o meno così: 45% personale, 45% spese generali e di amministrazione e 7,5% donazioni. O potrei dire che il deficit (la differenza fra entrate e uscite) negli ultimi anni ha oscillato fra 60 e 70 milioni. Ma sulla sola base di questi numeri qualcuno potrebbe pensare che il deficit è un buco che deriva da cattiva amministrazione. O che finanzia una burocrazia immobile. Non è così. Niente a che vedere con questo. Dietro questi numeri c’è la missione della Santa Sede e del Santo Padre, c’è la pienezza della vita e del servizio ecclesiale. Non è giusto dire che il deficit si finanzia con l’Obolo di S. Pietro come se l’Obolo riempisse un buco. L’Obolo anche è una donazione dei fedeli: finanzia la missione della Santa Sede, che include la carità del Papa, e che non ha ricavi sufficienti.

I numeri sempre vanno capiti. Dietro questi numeri c’è il fine. Dentro il bilancio c’è la missione, il servizio che queste spese rendono possibile. Forse dobbiamo spiegare meglio, raccontare meglio. Sicuramente dobbiamo essere chiari.

Cosa intende di quando parla di “bilancio di missione”?

Intendo spiegare quel che c’è dentro quei numeri. Per esempio: comunicare quello che il Papa fa in 36 lingue, attraverso la radio, la tv, il web, i social, un giornale, una tipografia, una casa editrice, la sala stampa (e così via) è una impresa che non ha eguali al mondo. Ha un costo, certamente. Ha anche dei ricavi. Assorbe circa il 15 per cento del budget. Ci lavorano più di 500 persone. Non so se si può fare meglio. Sempre si può. Ma se facciamo una comparazione, non credo che troviamo altri che producano così tanto con così poco. Un altro dieci per cento del budget va alle nunziature. Qualcuno magari pensa che siano chissà cosa. Sono piccole ambasciate del Vangelo, che difendono nelle relazioni internazionali i diritti dei poveri, che portano avanti una diplomazia del dialogo, della pace, della cura della terra come nostra casa comune.  Un altro dieci per cento si spende per le Chiese Orientali, che sono spesso perseguitate o nella diaspora. Per l’attenzione alle Chiese più povere, alle missioni, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, si eroga un altro 8,5 per cento. Poi c’è la tutela della unità della dottrina, ci sono le cause dei Santi. C’è la preservazione di un patrimonio dell’umanità come la Biblioteca Vaticana e gli Archivi. C’è la manutenzione, doverosa, degli edifici: un altro dieci per cento. Ci sono le tasse italiane, che paghiamo: il 6 per cento circa del budget, cioè 17 milioni. E così via…

Questa era la situazione pre Covid. Ma ora? Sono state presentate diverse ipotesi, una più ottimista e una più pessimista: può illustrarle entrambe, brevemente?

Abbiamo fatto alcune proiezioni, alcune stime. Le più ottimistiche calcolano una diminuzione delle entrate intorno al 25 per cento. Le più pessimistiche intorno al 45 per cento. Noi non siamo in grado di dire oggi se ci sarà una diminuzione delle donazioni all’Obolo, o una diminuzione dei contributi che arrivano dalle Diocesi.

Sappiamo però, perché lo abbiamo deciso noi e per la difficoltà di pagare il canone da parte di alcuni affittuari, che ci sarà una contrazione delle rendite derivanti dagli affitti. Avevamo già deciso, approvando il budget di quest’anno, che le spese andavano ridotte, per abbassare il deficit. L’emergenza del dopo Covid ci obbliga a farlo con maggiore determinazione. Lo scenario ottimista o quello pessimista dipendono in parte da noi (da quanto saremo capaci di ridurre i costi) e in parte da fattori esterni, da quanto realmente le entrate diminuiranno (le entrate non dipendono da noi). In ogni caso, se non ci sono ricavi straordinari, è evidente che ci sarà un aumento del deficit.

Padre Guerrero, il Vaticano rischia davvero il default, come qualcuno ha scritto?

No. Io credo di no. Il Vaticano non rischia il default. Questo non vuol dire però che non dobbiamo affrontare la crisi per quella che è. Abbiamo sicuramente davanti anni difficili. La Chiesa compie la sua missione con l’aiuto delle offerte dei fedeli. E non sappiamo quanto la gente potrà donare. Proprio per questo dobbiamo essere sobri, rigorosi. Dobbiamo amministrare con la passione e la diligenza del buon padre di famiglia. Ci sono tre cose che non sono in discussione, nemmeno in questo tempo di crisi: la retribuzione dei lavoratori, gli aiuti alle persone in difficoltà e il sostegno alle Chiese bisognose. Nessun taglio riguarderà chi è più vulnerabile. Non viviamo per salvare i budget. Abbiamo fiducia nella generosità dei fedeli. Ma dobbiamo dimostrare a chi ci dona parte dei suoi risparmi che i suoi soldi sono ben spesi. Ci sono tanti cattolici nel mondo disposti a donare per aiutare il Santo Padre e la Santa Sede a compiere la propria missione. È a loro che dobbiamo rendere conto. E a loro che possiamo ricorrere.

La situazione vaticana non è diversa da quella di tanti altri Stati chiamati a fronteggiare una grave crisi economica a causa della pandemia: come pensate concretamente di fronteggiarla?

È vero che la situazione non è diversa, ma è vero anche che noi non abbiamo né la leva della politica monetaria e né quella della politica fiscale. Noi possiamo contare solo sulla generosità dei fedeli, su un piccolo patrimonio e sulla capacità di spendere meno. Contrariamente a quello che in tanti pensano non ci sono grandi salari qui.

Una buona notizia è che SPE, APSA, Segreteria di Stato, Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Consiglio per l’Economia e Governatorato stanno lavorando insieme per fronteggiare la crisi e riformare quel che va riformato. Abbiamo chiesto a ciascun Ente di fare il possibile per ridurre le spese salvaguardando l’essenzialità della propria missione. A un livello più strutturale, poiché il deficit è strutturale, dovremo centralizzare gli investimenti finanziari, migliorare la gestione del personale, migliorare la gestione degli appalti. Sta per essere approvato un codice per gli appalti che porterà sicuramente a dei risparmi. Stiamo lavorando in costante collegamento con tutti i dicasteri coniugando la centralizzazione con la sussidiarietà; le autonomie con i controlli; la professionalità con la vocazione.

Questa centralizzazione degli investimenti, di cui lei parla, quando e come verrà attuata?

Abbiamo un gruppo di lavoro su questo, che collabora in un clima sereno. Ci vorrà ancora qualche mese. L’obiettivo non è solo centralizzare: è fare qualcosa di professionale, senza che vi sia il conflitto di interessi e con criteri etici. Bisogna non solo evitare investimenti non etici, ma anche promuovere investimenti legati ad una diversa visione dell’economia, alla ecologia integrale, alla sostenibilità.

Come farà la Santa Sede a garantire i servizi che attualmente offre e lo stipendio delle persone attualmente impiegate, nonostante le consistenti minori entrate che faranno dilatare il rosso dei conti?

Noi non siamo una grande potenza. Si discute della difficoltà a farcela di grandi Paesi europei. Immaginiamo noi. Dobbiamo essere umili. Siamo una famiglia che ha un piccolo patrimonio e l’aiuto generoso di molti. Ce la faremo. Con la nostra capacità di amministrare bene. Con l’aiuto di Dio e dei fedeli. La Chiesa tutta è sostenuta così.

Partiremo dalla condivisione della verità della situazione economica. Il meglio che possiamo fare è essere diligenti e trasparenti. Conteremo sul denaro sul quale potremo contare. Costruiremo per il 2021 un budget a base zero. Partendo dall’essenzialità della missione.

Ma come far crescere la fiducia dei fedeli dopo le notizie di cronaca dell’ultimo anno sulle inchieste riguardanti le modalità con cui sono stati fatti alcuni investimenti?

La fiducia si guadagna con il rigore, la chiarezza, la sobrietà. E anche ammettendo con umiltà errori passati, per non ripeterli, e errori attuali, se ce ne sono. Succede a volte, è successo anche a noi, per esempio, di esserci affidati a persone che non meritavano fiducia. Sempre siamo vulnerabili in questo. Maggior trasparenza, minore segretezza, rende più difficile commettere errori. È proprio per questo che per gli investimenti puntiamo ad avere un comitato serio, di persone di alto livello, senza conflitti di interesse, che ci aiuti (per quanto possibile) a non sbagliare.

Quando tornerà ad essere pubblicato un bilancio ufficiale?

Mi piacerebbe che fosse già quest’anno. Per spiegare bene come spendiamo il denaro. Per dire – carte alla mano – che si spende per fare il bene, e al servizio della Chiesa. Abbiamo bisogno di narrarlo questo. Di raccontarlo bene. La realtà che ho visto in questi mesi alla Santa Sede parla di questo. Merita fiducia. Questa missione piena di bellezza è portata avanti con la generosità di molti che nessuno conosce.

Come si sente ad occupare il posto di “ministro dell’Economia”? Riesce a riposare la notte in questo periodo difficile?

Dormo sì, dormo bene. Finora nessuna difficoltà mi ha tolto il sonno. Ho fiducia nel Signore della Vita, e so che la Vita sempre finisce per aprirci la strada. E questa cosa del ministro, dei ministri della Curia, mi fa un po’ sorridere. Non mi sento ministro dell’Economia. Mi sento un gesuita e un sacerdote che sta svolgendo un servizio alla Chiesa, un servizio di retroguardia forse, e in collaborazione con altri, che consiste nell’aiutare il Santo Padre e la Santa Sede nello svolgimento della propria missione. Ho un compito. Continuo un cammino. Lavoro in squadra. Ascolto i consigli. Imparo. Cerco persone competenti. So che i cambiamenti non si fanno in un giorno. E non si fanno da soli. L’obiettivo è lavorare insieme. Mi sono sentito molto bene accolto a partire dal Papa e dalla Curia, per non parlare del personale della SPE, tutti ottimi e validi professionisti. Camminiamo uniti. Siamo molto impegnati sulla strada della trasparenza, della sobrietà, della diligenza, della austerità, nell’esercizio di quella che è e rimane una missione.

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13 maggio 2020, 11:58