· Città del Vaticano ·

Il percorso di un sacerdote che aveva perso se stesso dietro a un iperattivismo pastorale

La sclerosi del cuore che ci impedisce di vivere

Giambattista Tiepolo, «Crocifissione» (1725)
12 maggio 2020

«Il silenzio di Dio ha disciolto le mie certezze come neve al sole. Le parole che mettevo su di lui sono scoppiate come bolle di sapone. Mi sono ritrovato nudo e muto, stravolto, sul ciglio di un’assenza. Su uno spartiacque tra nascita e morte, tra origine e fine».

Queste parole, scritte da Raphaël Buyse, mi hanno accompagnato durante le settimane di quarantena, accanto ad altre di uguale radicalità che vanno a tessere le pagine di Un Dio diverso. L’edizione italiana è stata pubblicata pochi mesi fa dalla casa editrice Qiqajon, (Magnano, Biella, 2019, pagine 143, euro 10). Si tratta di un libretto agile ma di grande intensità, in cui l’autore, un sacerdote francese, racconta la radicale esperienza di spoliazione interiore vissuta durante un periodo di crisi personale.

Sacerdote brillante, ma consumato da un iperattivismo pastorale che lo porta a perdere se stesso, Buyse decide si ritirarsi per tre anni nel monastero benedettino di Clerlande, a pochi chilometri da Bruxelles. Quello è il suo Iabbok, il luogo della sua lotta con Dio, come Giacobbe con l’angelo. Quando bussa alla porta dei monaci, padre Raphaël si rende conto che il Dio in cui fino ad allora aveva creduto era un Dio troppo esigente, troppo disumanizzante, un Dio fatto a immagine di se stesso: «L’avevo vincolato ai miei desideri e ai miei sogni; l’avevo confuso con i fantasmi provenienti dal profondo della mia fragilità; me l’ero costruito come una risposta che colma la mia solitudine. Le immagini che mi facevo di lui si confondevano con quelle di me stesso».

Fino ad allora aveva cercato Dio «al di là dell’umano», come se Egli pretendesse il sacrificio dell’umanità di quanti vogliono essergli discepoli. Schiacciato tra la ricerca dell’approvazione altrui e un servizio a un Dio soffocante, Buyse mette in discussione tutto quello che fino ad allora era stata la sua fede. Tra i chiostri di Clerlande, intuisce di aver perso la strada nella «frenesia di edificare pietra su pietra un tempio-chiesa che Dio forse non si attende neppure da noi».

Sta qui una delle chiavi di volta del suo cammino: il Dio cristiano non è un Dio che schiaccia l’uomo con aspettative sempre maggiori, ma è un Dio della libertà, del gratuito, della pace, un Dio «che si ritira come il mare. Amabile nella sua assenza». Perché Buyse fa l’esperienza (tante volta raccontata dai mistici) del silenzio di Dio, quel silenzio capace di scavare nel profondo, di scarnificare anche, distruggendo certezze consolidate come fossero semplici «bolle di sapone».

Leggevo queste pagine nei giorni dell’epidemia, nelle settimane del dolore e della preghiera, del silenzio e della solitudine. Capivo che quello che raccontava Buyse era esperienza di molti, nel tempo della sofferenza fisica o morale. Capivo che tanti stavano compiendo la loro lotta presso lo Iabbok, cercando nel silenzio di Dio la sua presenza, la sua parola, il suo mistero.

Ma dopo la notte dell’anima, Buyse sperimenta il sorgere dell’alba su una fede nuova, su una vita nuova: «Dopo Clerlande, balbetto la mia fede in un Dio che non si aspetta nulla dall’uomo, che se ne è distaccato e lo lascia esistere». Questa è una delle grande intuizioni del sacerdote: non esiste dicotomia tra Dio e uomo, perché Dio vuole «l’unificazione profonda della persona». Dio non ci vuole nonostante l’umanità che ci caratterizza, ma ci ama per quello che siamo, per quello che portiamo nella nostra vita. È una certezza che placa il subbuglio interiore: «Allora ho lasciato perdere le domande senza risposta e soprattutto le risposte senza domanda».

Tra i chiostri del monastero, seguendo la sapienza della regola benedettina e la concreta saggezza di Madeleine Delbrêl, padre Raphaël smobilita l’esercito del suo ego. Capisce che la via da intraprendere per incontrare il Dio del Vangelo è quella di vivere la propria umanità in pienezza, vincendo la tentazione di amputare parti di sé come se fossero sgradite a Dio; si rende conto, infatti, che ci sono persone che «si sono concentrate su Dio per rimuovere la questione dell’uomo: la ricerca di Dio può divenire una forma di dimissione dall’esistenza».

Queste parole mi cadevano nell’animo mentre i media e i social si popolavano di facili risposte a domande radicali sul mistero di Dio e il male del mondo: parlare di Dio per fare un passo indietro nel prendere sul serio la vita e le sue contraddizioni?.

Ma il Vangelo racconta di un Dio incarnato. Di un Gesù di Nazaret che «unifica la vita di coloro che seguono i suoi passi». Un Cristo che salva. Ma da cosa? «Dalla disumanità e dalla scissione (...). Se ci salva, è dalla scarsa fede che abbiamo nella vita, in lui, nella sua presenza. Dalla nostra indifferenza, dalle chiusure, dalla sclerosi del cuore che ci impedisce di vivere. Se ci salva, è dal panico, dalla paura di un Dio presentato come uno che vorrebbe farci pagare il diritto di vivere». Gesù di Nazaret libera l’uomo: «se Cristo ci libera è dalle certezze nelle quali l’abbiamo rinchiuso; è dalle catechesi con il marchio di garanzia, dalle formule magiche e da quei piccoli riti che a volte sfiorano la nevrosi. Se ci libera è dalla religione che legittima tante forme di potere e influenza. È dal senso di colpa che avvelena l’esistenza e impedisce di vivere, danzare, amare».

A un Dio così allora si può acconsentire. Perché di un Dio così, che ama l’uomo anche nel suo fardello di fragilità, che ama gratuitamente senza aspettarsi uomini perfetti, ci si può fidare. Ma fidarsi di Dio vuol dire anche fidarsi della vita abitandola con serenità e libertà, con coraggio e responsabilità. Per questo Buyse, dopo tre anni, lascia Clerlande: comprende che il suo posto non è nel monastero; sente di voler tornare nel mondo, le cui strade devono però essere percorse con consapevolezze nuove, con speranze rinnovate, ma soprattutto con la gioia semplice che sa valorizzare il “qui e ora”, senza angosce per il futuro e senza pesi dal passato. Vivere così significa «salvaguardare momenti di raccoglimento», difendere istanti di solitudine, significa «esserci, semplicemente, là dove la vita ci ha portato». Riscoprire il valore dell’oggi, evitando folli corse che non si controllano e che consumano la vita.

Sono pensieri che cadono come balsamo nel tempo della sosta forzata, quando siamo tesi tra un legittimo desiderio di tornare a percorrere le nostre città e il pericolo di ripartire nella solita corsa del quotidiano che divora tempo, relazioni, riflessioni, preghiera.

L’invito che Buyse rivolge — senza poter immaginare quello che sarebbe accaduto in questo 2020 — è di dimorare in noi stessi, difendere il nostro spazio umano più intimo, riscoprire ciò che ci abita nel profondo ed edificare lì, con pazienza e serenità, la nostra vita. Da qui derivano le sue riflessioni sull’amore, sul sacerdozio, sulla Chiesa, visti come luoghi dove stare con umanità. Quella Chiesa in cui si può risiedere senza per forza concepirsi come uomini e donne presi da mille impegni ufficiali. Quella Chiesa amata «per quello che potrebbe diventare», perché «come tanti altri, la sogno più semplice, più fraterna, più impegnata lungo le linee di rottura, più vicina alle nuove attese dei contemporanei, meno divisa in compartimenti stagni, più libera nel prendere la parola e nella liturgia». Nella certezza che «i ribelli dello Spirito sono più obbedienti dei sapienti figli della legge», perché «senza di loro la Chiesa sarebbe una vecchia istituzione stagnante». Quella Chiesa che, quasi riecheggiando Carlo Carretto, egli vuole abitare e servire, con fedeltà e audacia.

L’importante, dice Raphaël Buyse, è avere il coraggio di porre domande radicali alla vita, di mettersi in cammino e procedere con piccoli passi, ma procedere sempre, perché «per divenire umani, bisogna mantenersi in cammino, non restare immobili».

Così si scoprirà il volto di «un Dio diverso», un Dio più umano, un Dio che salva e libera già nel presente. Un Dio diverso che potrebbe essere il dono di questi giorni di silenzio, di riflessione e di fatica. Un Dio diverso che ci attende al nostro Iabbok.

di Sergio Di Benedetto