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MONGOLIA - I vantaggi dei grandi spazi

Un silenzio rispettoso e adorante

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28 marzo 2020

Sono le 7.15, abbiamo appena pregato le lodi mattutine e ci fermiamo come sempre in adorazione eucaristica. Il silenzio è avvolgente, come sempre qui ad Arvaiheer, non solo adesso; un silenzio così forte che qualcuno lo trova insopportabile e la notte non riesce a dormire, quando viene da noi in Mongolia. Penso al silenzio delle città italiane di questi giorni, di altra natura, certo, blocco forzato che nessuno avrebbe mai voluto.

Le prime luci dell’alba riflettono sulla collina dietro la missione, sormontata da uno stupa buddista e da un cumulo di pietre votive d’ispirazione sciamanica. Ai piedi di quella collina ci siamo noi, sparuto gruppetto di missionari e missionarie della Consolata, a intensificare la preghiera in questo tempo di dolore globale, di sofferenza generale e collegata, rimbalzante sui media che raggiungono anche la steppa mongola. Vivere in un Paese grande cinque volte l’Italia con appena 3,5 milioni di abitanti, con immensi spazi vuoti e aridi che separano un villaggio dall’altro, in questo momento ha i suoi vantaggi. Qui la chiusura delle scuole è iniziata a fine gennaio, seguita a ruota dalla sospensione di qualsiasi attività pubblica. Da quasi due mesi celebriamo messa solo noi padri e suore, senza poter accogliere nessuno; anche le numerose attività di promozione umana che normalmente svolgiamo sono sospese a tempo indeterminato. Per ora non ci sono emergenze sanitarie, se non il contenimento dei pochi casi di contagio, legati a cittadini mongoli rientrati dall’estero e già prontamente messi in isolamento. Le forze dell’ordine sono venute a ispezionarci. Uscendo un agente mi ha detto: «Lei che è italiano si ritenga fortunato ad essere qui e non nel suo Paese». Aveva terribilmente ragione e questo aumenta in me la frustrazione di sentirmi impotente di fronte a questo male così grande. Sono molti gli amici e conoscenti mongoli a farsi vivi per telefono, manifestando affetto e offrendo preghiere. Sì, il popolo mongolo, profondamente pervaso da un grande senso religioso-sacrale della vita, ha parole di compassione per chi soffre e ricorre istintivamente alla preghiera. Grande lezione a chi viene da un Occidente spesso scettico verso chi si dichiara orante. In una situazione del genere le riflessioni sui massimi sistemi lasciano il tempo che trovano; possono anche creare fastidio in animi troppo provati dal dolore. Penso molti stiano tacitamente ammettendo che tutto ciò è un ritorno all’essenziale: quando tutto viene meno, cadono anche le impalcature che avevamo costruito, magari “a fin di bene”.

Come missionario mi sento provocato verso un qualcosa che anche in tempi non sospetti mi rimbombava dentro: la missione si può reggere solo su “cose che si fanno” o sta in piedi perché c’è un nucleo, un cuore ancora più essenziale, che sussiste anche in assenza di opere e che di esse è la ragione e ne detta lo stile? Il grande dolore che affligge l’umanità intera in questo momento, credo, ci chiede soprattutto silenzio, un silenzio rispettoso e adorante, non rassegnato, persino fiducioso. Quello del Salmo 36: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in Lui». Un silenzio che si trasforma in attenzione e prossimità operosa. Quando qualcuno sta male, gli si sta vicino, senza parlare, ma tenendogli la mano e asciugandogli la fronte, come diceva il beato Pierre Claverie, martire in Algeria; è lo stesso Gesù che sta soffrendo con questa umanità che si riscopre più fragile di quanto non pensasse. Lui ci mostrerà come rialzarci e lasciarci trasfigurare dalla sua luce.

di Giorgio Marengo
Missionario della Consolata Arvaiheer, Mongolia

 

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