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Pasqua in Cambogia: p. Caccaro, dal Papa esempio di umiltà per Chiesa giovane

Nel villaggio cambogiano di Pka-Doong lo chiamano il “missionario di Gesù”. È padre Alberto Caccaro che, al confine col Vietnam, si occupa di una piccola comunità cristiana ed ha aperto una scuola tra i khmer, frequentata da 120 alunni: sono tutti buddisti - racconta - e con un gruppetto di musulmani

Giada Aquilino - Città del Vaticano

Una festa nel segno dell’“umiltà reciproca” e della “vita nuova”, ispirata anche dal gesto di Papa Francesco che, inchinandosi, ha baciato i piedi dei leader sud sudanesi in ritiro in Vaticano, e contrassegnata da 294 Battesimi. È la Pasqua in Cambogia nelle parole di padre Alberto Caccaro, missionario del Pime a Pka-Doong, nella prefettura apostolica di Kompong-Cham. 

Dal 2001 nel Paese asiatico, anche se per un periodo rientrato in Italia, il sacerdote parla a Vatican News della piccola Chiesa cambogiana, circa 25 mila fedeli, e in particolare della sua comunità in una zona al confine col Vietnam, senza dimenticare una storia fatta di orrori e persecuzioni che ora - dice - vuole “guardare avanti” (Ascolta l'intervista a padre Caccaro).

R. - La Pasqua, proprio perché si tratta di una piccola Chiesa, si celebra anche in piccole comunità. Io per esempio ho quattro piccole parrocchie e, in ciascuna di esse, ho circa 10, 15, a volte 20 cattolici, che si radunano per la Pasqua. In particolare, nella Messa di Pasqua radunerò tutte e quattro le comunità per arrivare almeno a una sessantina di cattolici. Quindi si celebra in modo molto semplice però in modo molto fedele ai riti della Pasqua. Abbiamo cominciato giovedì con la lavanda dei piedi, il ricordo dell’Ultima Cena, venerdì con la celebrazione della morte di Gesù, quindi con la Pasqua, la Risurrezione. Credo che in questo caso il numero non segni l’intensità delle celebrazioni: questa è la mia esperienza. Quest’anno poi nella notte di Pasqua avremo 294 Battesimi in tutta la Cambogia, che è divisa in tre diocesi per così dire: Phnom-Penh che è un vicariato apostolico, Battambang e Kompong-Cham che sono due prefetture apostoliche.

Che segno è per la Chiesa, che significato hanno questi Battesimi?

R. - La Chiesa cambogiana, per quanto numericamente semplice, in realtà è anche una Chiesa molto giovane. E questa è la sua forza: non tanto nei numeri, ma nell’età dei cattolici, perché essendo giovani sono anche gravidi di futuro. Per cui questi nuovi 294 “figli di Dio” sono anche in qualche modo il futuro della Chiesa. Così è stato lo scorso anno, così sarà anche il prossimo anno: la Chiesa cambogiana ha un volto giovane e quindi anche piuttosto dinamico. Quando un giovane sceglie di aderire alla fede cattolica è perché vive un’esperienza di comunità. La Chiesa aggrega, in particolare i giovani, li educa, li coinvolge in attività caritative, in attività di catechesi, quindi anche di ricerca del senso della vita. Molti di loro scelgono di aderirvi appunto perché cominciano a fare cose mai fatte prima, cominciano a vivere la carità, cominciano ad aggregarsi senza ragioni politiche e senza motivi di denaro, ma semplicemente perché accomunati da una passione, da una ricerca che diventa anche fraternità.

Come è composta la società cambogiana, che è a prevalenza buddista?

R. -  Nella mia zona in realtà ci sono tutte e tre le tradizioni religiose: quella cattolica, con un piccolo gruppo di cristiani, la maggioranza di buddisti e una minoranza ma consistente di musulmani. Conviviamo nel medesimo villaggio, dove c’è la pagoda, c’è la chiesa cattolica e ci sono almeno due piccole moschee. L’esperienza è quella di una convivenza pacifica. Da quando siamo arrivati poi abbiamo avviato una scuola media. C’era una scuola elementare esistente ma mancava una scuola media, per consentire ai ragazzi di continuare lo studio e di raggiungere un’età in cui poi potranno continuare a studiare lontano dal villaggio. Infatti, prima che costruissimo la nostra scuola, l’80 per cento dei giovani interrompeva gli studi dopo la scuola elementare. Nella nostra scuola gli alunni sono tutti buddisti, con un gruppetto di musulmani. I ragazzi sono 120 e due anni fa abbiamo iniziato a costruirla con l’appoggio delle famiglie del villaggio che sono 356, prevalentemente buddiste, con una piccola minoranza musulmana.

Come queste famiglie del villaggio partecipano alla festa di Pasqua della comunità cattolica?

R. - Abbiamo avuto qualche giorno fa una grande festa a scuola anche perché coincideva con il capodanno khmer. A questa festa abbiamo invitato tutti gli alunni e le loro famiglie. Ed era forse la prima volta che si sentivano “convocati”. La scuola ha le porte aperte a tutti, per cui ci siamo accorti che è una grandissima opportunità per convocare le famiglie, anche di religione diverse: cioè la scuola è strumento di dialogo. La chiamano “la scuola di Gesù”, quindi in qualche modo Gesù viene tirato in causa: loro, come missionario cattolico, mi identificano come “missionario di Gesù”. Tutti sanno che la scuola è il futuro dei loro figli, per questo le famiglie sono venute tutte e ci siamo ritrovati in 200.

La Chiesa della Cambogia è risorta dalle ceneri dopo le distruzioni di Pol Pot: cosa rimane dell’orrore del regime dei khmer rossi, caduto 40 anni fa?

R. - Una lezione di riconciliazione. Perché l’esperienza dei khmer rossi, totalmente devastante, coinvolse tutti. L’esperienza di riconciliazione io l’ho vissuta proprio perché le persone stesse volevano guardare avanti, cioè non cedevano alla tentazione della vendetta o della resa dei conti, ma volevano unanimemente superare quel periodo e guardare avanti. Ho assistito ad una grande voglia di riscatto, di continuare verso il futuro. Certo, rimane la storia ormai scritta, rimane la violenza, però si vuole andare avanti. E la Chiesa con l’annuncio del Vangelo è sicuramente uno strumento di rinascita, di ripresa.

Il messaggio di questa Pasqua allora qual è in Cambogia?

R. - Durante la celebrazione della cena del Signore, Giovedì Santo, abbiamo trasmesso il video del Papa che bacia i piedi ai leader sud sudanesi. Ci siamo accorti che quel gesto è stato profondamente evocativo di una speranza di pace per il mondo intero. E il fatto che Francesco abbia compiuto tale gesto ha reso Cristo più vicino, Cristo più evidente e ha come aperto una strada: ora vediamo la Pasqua all’insegna di questo gesto, di questa umiltà, che se diventa umiltà reciproca diventa anche principio di vita nuova, diventa Risurrezione in atto. Ecco, è stato un gesto di Risurrezione: i nostri cristiani hanno assistito a questa scena in silenzio, ma capendo che quel che ha fatto Gesù durante l’ultima cena viene riproposto dal Papa in modo così semplice e bello e questo genera grandissima speranza.

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20 aprile 2019, 08:30