7 mesi, 3 giorni e 12 ore a Lesvos: storia di un afghano nato in Iran
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Non vuole avere un nome, sceglie di non farsi riconoscere, è uno dei profughi del cosiddetto campo “informale” di Moria, sull’isola greca di Lesbo, di fronte l’hot-spot dove avvengono non senza difficoltà e lunghi iter burocratici le registrazioni degli arrivi e le eventuali procedure di richiesta di asilo. Fa parte di quel migliaio di “invisibili” che si aggiungono agli oltre 4.700 profughi presenti al Moria refugee camp, quello ufficiale. Ci confida una cifra: “7 mesi, 3 giorni e 12 ore”. E’ da tanto che si trova a Lesvos, che attualmente ospita circa 7 mila profughi, perlopiù afghani. È nato e cresciuto in Iran, ma è proprio cittadino afghano. Conta i mesi, i giorni e le ore questo ragazzo vestito di nero come i suoi occhi. Con la delegazione guidata dall’Elemosiniere apostolico, il cardinale Konrad Krajewski, e accompagnata dalla Comunità di Sant’Egidio, lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia.
Sequestrato dai talebani
Ha 24 anni e una laurea magistrale in economia alle spalle. Ha lasciato l’Iran, dice, “perché nel Paese non c’era futuro: ho studiato per 12 anni ed ho deciso di andare in Afghanistan per finire gli studi e per aiutare a costruire in qualche modo il mio Paese d’origine, ma non è andata bene: sono stato sequestrato dai talebani e - prosegue - dopo essere riuscito a scappare ho deciso di andare via anche da lì. Ho lasciato il Paese e ho provato a tornare in Iran, ma non avevo più un documento valido”.
Trafficanti e mercenari
“Ho parlato con un trafficante che mi ha detto che, se fossi riuscito ad arrivare in Europa, avrei potuto avere una vita abbastanza facile. Mai avrei immaginato di trovarmi davvero in Europa e di diventare un profugo”, ci confida senza mai perdere la lucidità o cedere alla commozione. “Non ho mai incontrato il ‘capo’, il trafficante. Venivo spostato dai mercenari che lavoravano per lui. Sono partito da Teheran, la capitale iraniana, ed ho viaggiato nascosto in un pullmino fino ad Istanbul”. Un viaggio di “un mese e mezzo”, costato “ad oggi circa 700 dollari”, dall’Iran attraverso la Turchia, poi le camminate “tra le montagne”, la traversata nelle acque dell’Egeo, fino all’arrivo a Lesvos, “alle tre di notte”.
L'iter burocratico
Non sapeva nulla dei campi di Lesvos, dove Medici Senza Frontiere nel tempo ha riferito addirittura di sintomi di psicosi e pensieri suicidi tra alcuni profughi. Anche se, sottolinea Astrid Castelein dell’Unhcr a Mytilene, il “fatto che la maggior parte della popolazione ora a Lesbo abbia origini afghane, perlopiù famiglie, sta facilitando la convivenza dei rifugiati e dei richiedenti asilo”. Eppure il campo, riferiscono le autorità greche, rimane controllato dalla polizia 24 ore su 24. A Lesvos, prosegue Astrid Castelein, “gli arrivi sono continui: ciò significa che in questo luogo, (l’hot-spot), che è il centro di registrazione e di identificazione, ci si aspetta che il numero di rifugiati sarà sempre di ampie dimensioni. La sfida più grande è relativa al fatto che la capacità di accoglienza del centro è minore rispetto al numero dei rifugiati al suo interno: nel campo infatti ci sono il doppio delle persone rispetto a quelle che lo stesso può contenere. Ma tutte queste persone devono stare nel campo perché devono essere prima registrate ed in seguito devono passare attraverso la procedura di richiesta di asilo. E tutto ciò è qualcosa che richiede tempo”, conclude la rappresentante dell’Unhcr.
Una persona utile
Al di là dell’hot-spot circondato da reti e filo spinato, a tratti qua e là tagliati, rimane il giovane profugo che ci accompagna tra le tende e i piccoli container del campo “informale”. “Quando sono arrivato - dice - non conoscevo nessuno. È stato molto difficile. Ma in qualche modo mi dicevo: ‘Per fortuna non ritornerò in Afghanistan’. Speravo davvero di essere una persona utile per il mio Paese. Poi ho pensato di raggiungere la Svizzera. Cerco di continuare a studiare e spero un giorno di diventare una persona utile sia per l’Europa sia per il mondo”. Ora, confessa però, non si sente utile “perché, trovandomi in questa situazione, la speranza di vivere non c’è più, ma confido che in futuro le cose possano cambiare”. E lo sguardo di nuovo non tradisce commozione. Ma la voce spezzata non mente. Intanto il tempo tra la nostra intervista e questo articolo è trascorso. Ora sono 7 mesi, 7 giorni e 12 ore che è a Lesvos.
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