Dejua e "Nativity", arte antica e moderna si specchiano nello stesso mistero
Maria Milvia Morciano - Città del Vaticano
In pieno spirito giubilare, Nativity è una mostra “pellegrina” che percorre la penisola portando due opere dell’artista contemporanea Giovanna Dejua in luoghi diversi a confronto con opere del passato. Dopo l’esposizione a Roma, nella chiesa di Santa Maria Annunziata in Borgo, attualmente questa particolare iniziativa sarà ospitata per tutto il mese di febbraio da Ariccia, a Palazzo Chigi, cui seguiranno Lanuvio, presso il Museo civico, nel mese di marzo; Gerano, a Palazzo del comune ad aprile; Firenze nel Museo de’ Medici e Parma nel Castello di Montechiarugolo nel mese di luglio. Dopo l’artista del XIV secolo Antoniazzo Romano, dialogheranno di volta in volta Jan Miel (XVII secolo), Antonio Pozzo (XVII secolo), autori della Scuola Parmense raffiguranti opere tratte dal Perugino (XVI e XVIII secolo).
L'essenzialità delle forme geometriche e dell'incarnazione di Cristo
David Vincent Mambriani, curatore della mostra Nativity e incaricato per gli Affari culturali del Giubileo, ai microfoni di Radio Vaticana - Vatican News ne spiega i motivi, richiamando come la semplicità delle forme geometriche e dello stile essenziale dell'artista Giovanna Dejua rispondano pienamente a quella essenzialità nella quale Cristo ha voluto incarnarsi”.
Il curatore David Vincent Mambriani prosegue: “Nativity è cominciata a Roma nel periodo di Natale e si lega quindi a questo periodo dell'anno liturgico. È stato possibile costruire un percorso che attraverserà l’Italia, toccando diversi luoghi e regioni. In ogni tappa verrà adattata in modo che ci possano essere un allestimento e una narrazione adatti. In questa mostra, le due opere di Dejua vengono messe in dialogo con opere di arte antica, dimostrando anche quanto l'arte contemporanea non sia avulsa da tutto ciò che è il discorso che nella storia dei secoli ha contraddistinto, soprattutto in questo caso, la tradizione italiana. Ovviamente la mostra resta in Italia, ma si inserisce in un dialogo che dimostra l’universalità del messaggio della Natività, del Vangelo. Un messaggio che tocca tutti gli angoli del globo, in questo caso dell'Italia, ma anche di tutti i tempi”.
Un linguaggio che raggiunge tutti
La mostra intende portare questo messaggio a tutti, in modo comprensibile, usando il linguaggio dell’arte. Mambriani prosegue: “Una delle volontà della Santa Sede è stata quella di organizzare una serie di eventi culturali in collaborazione con il Commissario straordinario per il Giubileo, quindi con il Governo italiano, proprio perché crediamo che la bellezza sia una via privilegiata per la conoscenza di Dio, soprattutto in una società che, apparentemente, sembra lontana dal messaggio cristiano. Il Dicastero per l'evangelizzazione ha organizzato una serie di eventi culturali: mostre, concerti, rassegne cinematografiche, edizioni e giornate di studio, assieme ad altre istituzioni, in questo caso con la Fondazione Dejua. Abbiamo deciso di allargare questo panorama di attività culturali in modo che fosse il più esteso possibile, che potesse essere ramificato, prendere tutta Roma, l'Italia e il mondo, perché il Giubileo è comunque un evento mondiale, internazionale e quindi la collaborazione con altre realtà importanti ha permesso di ampliare visioni e sensibilità”.
Viaggio nel mondo digitale
Angelo Paletta, direttore della Fondazione Giovanna Dejua, spiega che l’organizzazione è avvenuta attraverso le partnership della Fondazione Rezza, Tota Pulchra e molti altri sponsor, partner istituzionali e patrocini. Oltre al curatore Mambriani, si sono affiancati i contributi di cinque critici e storici dell'arte che hanno firmato il catalogo della mostra: il professor Claudio Strinati, il professor Lorenzo Canova, la dottoressa Paola Di Gianmaria, l'architetto Francesco Petrucci e il dottor Francesco Francesconi. La mostra, che si articola per varie tappe, è iniziata a dicembre 2024 e terminerà a luglio 2025.
“Inoltre in Nativity si è voluto inserire un elemento di innovazione con una sede permanente nel Metaverso di Oplan City”, prosegue il direttore. “Oplan City è un progetto ingegneristico digitale che ha creato uno spazio museale inedito, dedicato a opere contemporanee e di arte antica. Questo connubio dà il senso dell'innovazione. L'antico e il contemporaneo possono dialogare insieme e sono l'uno la prosecuzione dell'altra. L'arte è la sintesi visiva immediata di quello che anche una dimensione digitale può offrire, non solo ai fruitori di una mostra, ma anche a degli investitori nel mondo del Metaverso, che è tutto da esplorare e per tantissimi ancora sconosciuto e, proprio per questo, ancora più affascinante”. E conclude spiegando: “Nel Metaverso si entra attraverso i link che si trovano nel web, delle porte ufficiali che permettono di entrare in queste città e di immergersi letteralmente in dimensioni totalmente nuove. È possibile anche creare una propria immagine, un proprio avatar, un personaggio, che assume le sembianze, le fattezze e i comportamenti di chi in realtà sta visitando in quel momento la dimensione del Metaverso. Questo umanizza il mondo digitale”.
Un'arte che viene da lontano
Claudio Strinati, critico e storico dell'arte, segretario generale dell'Accademia di San Luca e per molti anni soprintendente del Polo museale romano, autore di un saggio scientifico nel catalogo della mostra Nativity, si sofferma sulla mostra.
Claudio Strinati delinea poi una particolare circostanza: “Queste due opere sono in perfetta sintonia con l'argomento generale della mostra. Hanno vari pregi e, soprattutto, quello di non essere nate adesso, cioè non sono state realizzate dall'artista per la mostra ma sono confluite nella mostra. Non è non è un'improvvisazione nata per l'occasione, è piuttosto il contrario è cioè l'occasione ha fatto sì che queste opere venissero esposte in un contesto di altissima spiritualità e cultura. Sono due dipinti che hanno entrambi lo stesso titolo, Natività, che risalgono a parecchi anni fa, per l'esattezza uno è dell’87 e l'altro del ’91, quindi riflettono una fase della creatività della nostra artista, che è certamente quella attuale, ma che trova i suoi presupposti parecchio tempo addietro. Un'arte che viene da lontano. È un progetto vero e proprio di cui queste due opere sono l'espressione”. Infatti questo progetto di Dejua non si esaurisce in queste sole due opere, ma fanno parte di un ciclo più ampio.
Il profilo dell'artista
Il professore passa a descrivere la figura dell’artista: “Dejua è un’esponente di quella grande linea dell'arte del Novecento che è l'astrazione. Naturalmente, all'interno di questo fenomeno ci sono tante declinazioni diverse, tanti modi diversi di affrontarla, ma la sua astrazione è sempre gravida, carica di figuratività, di riconoscibilità, non è soltanto pura geometria, ma è un'astrazione indubbiamente geometrica, di base geometrica, che però trascina dentro di sé la figura, l'immagine riconoscibile - naturalmente riconoscibile come astrazione - cioè non come rappresentazione immediata di qualcosa che tu subito riconosci, ma come simbolo, come metafora di una riconoscibilità che in realtà è tradotta in forme essenziali. Ne deriva un'astrazione geometrica e l'astrazione geometrica è naturalmente la quintessenza dell'astrazione. In un certo senso, la sua linea di pensiero visivo nasce proprio alle origini del Novecento, un po’ dalla matrice storica dell'astrazione che è rappresentata da Kandinsky, da quella che poi diventerà la scuola del Bauhaus. Quindi questo mondo russo tedesco, tra l'altro anche molto italiano perché, in particolare ma non solo, l'altra radice dell'astrazione nell'arte del XX secolo è il futurismo di Balla. Queste due radici ci sono entrambe ma rielaborate in una forma che è totalmente originale, che in realtà deve ben poco sia all'astrazione lirica, diciamo di Kandinsky, sia all'astrazione, intesa come linea forza, come potenza, come aggressività, che è quella che nasce, del quale Il futurismo di Balla è l'esponente più importante. Però queste due anime dell'astrazione ci sono, però in un altro modo".
Riduzione all'essenziale
"Questi due quadri, che tra l'altro sono eseguiti con la tecnica molto particolare dell'acrilico, su cui viene innestata una stesura a foglia d'oro 24 carati che fa risplendere letteralmente questa immagine e contrasta in qualche modo con la densità, se vogliamo anche un po’ l'oscurità dell'acrilico, può essere anche trasparente, però nella sua forma più pura è estremamente denso e noi vediamo questi due quadri in cui da un lato c'è la componente geometrica, la moltiplicazione delle forme geometriche e dall'altro c'è proprio la riduzione all'essenziale, soprattutto in uno dei due, quello del ‘91", spiega Strinati.
"Questa Natività, che poi è allo stesso tempo anche preludio all'adorazione dei Magi perché appare la cometa in alto, quindi un elemento figurativamente riconoscibile. E questo quadro è basato proprio su una essenzialità totale: il triangolo con un punto centrale che emana luce o assorbe luce e che da un lato ci fa capire perfettamente che cosa rappresenta anche se non lo rappresenta. Allora questo principio rientra in un progetto che l'artista stessa ha denominato "Nuovo progetto astratto" e che persegue da moltissimi anni. Nuovo perché l'astrazione non è una forma intellettualistica, ma è un modo di esprimersi, gravido di sentimento intimo".
Arte nitidissima, raffinata
Il critico d'arte prosegue: "È il raccoglimento che la storia sacra ci dice essere la quintessenza della Natività. La Natività è un momento di meditazione, di meditazione da parte di coloro i quali sono inconsapevoli pastori. I Magi stessi, sono accompagnati dalla cometa, ma quando arrivano di fronte al Bambinello, non sanno. In realtà percepiscono che sono di fronte all'evento miracoloso per antonomasia, ma sono non dico increduli, anzi credono, ma non capiscono bene in che cosa debbano credere. È arrivato il Redentore. Già, ma che cos'è in realtà il mistero della fede? È espresso subito, fin dall'inizio. E il "Nuovo progetto astratto" contempera la dimensione del mistero a quella dell’esplicito. Questo tipo di pittura nitidissima, perfetta, estremamente raffinata, è proprio lo strumento ideale che ci introduce al grande mistero della fede e dell'arte e nello stesso tempo però ce lo delinea, ce lo disegna in un modo semplice. La grande semplicità è uno degli elementi strutturali della fede da un lato, e dell'arte stessa. Quindi queste due opere rendono molto bene il senso complessivo della parabola di questa artista".
Stesso spirito, senza tempo
Il dialogo dell'arte antica con l'arte contemporanea offre sempre suggestioni affascinanti e allo stesso tempo non permette l'applicazione di un metodo codificato sempre uguale. Nel caso della mostra romana, Strinati così spiega: “Sono state scelte a confronto due opere che appartengono al patrimonio vaticano e raffigurano la Madonna col Bambino e sono del Quattrocento; non sono attribuite con assoluta certezza e una delle due è ritenuta dagli studiosi di Antoniazzo Romano, che è stato il pittore per antonomasia del Quattrocento romano, il pittore delle confraternite, il pittore che contribuiva alla meditazione sulla fede in un modo semplice, lineare, casto. L'altra opera è pure risalente al Quattrocento, direi la seconda metà. Ma non ne conosciamo l'autore. Ora Antoniazzo nella seconda metà del Quattrocento lavorò moltissimo, produsse moltissimo, attirò a Roma tanti artisti, ma di tutte quelle opere pochissimo rimane, perché la Roma quattrocentesca è sopravvissuta soltanto per pochi frammenti, ma molto è andato distrutto. Quindi queste due opere sono commoventi perché sono molto belle e ci riportano a un'età in cui il culto è espresso con un'arte semplice, casta, delicata, proprio rivolta al popolo, alla devozione popolare. E quindi dialogano bene con Giovanna Dejua. Certo, le due opere moderne non assomigliano a quelle quattrocentesche, ma lo spirito da cui quelli quattrocenteschi sono nati è molto simile: veicolare verso tutti, non soltanto i dotti che conoscono la storia dell'arte, che sappiano o meno, tutti, tutti coloro i quali si possono avvicinare a un'opera d'arte, veicolare la stessa dimensione di intimità, di devozione, di bontà, di raccoglimento. Questo in effetti è pressoché identico", conclude il segretario generale dell'Accademia di San Luca.
L'opera d'arte è sempre moderna
"È lo stesso linguaggio espresso però in una lingua diversa", prosegue il professore. "Credo che il visitatore della mostra questo lo capisce intuitivamente. Non c'è bisogno di molte spiegazioni. Quindi questa apparente distanza, questa apparente differenza totale, lo è nell'esteriorità, ma nell'interiorità non lo è affatto. Ed è una lezione interessante perché ci insegna che quando ci accostiamo all'opera d'arte in generale, non dobbiamo mai pensare se sia antica o moderna. L'opera d'arte è sempre moderna, cioè quando gli antichi hanno prodotto le loro opere erano moderne e un'opera d'arte è moderna perché comunque quando noi ci avviciniamo è presente fisicamente presente, quindi è stata prodotta nel passato, ma se è sopravvissuta appartiene al nostro tempo. E questo insegnamento dalla mostra di Giovanna Dejua emerge, oltre al tema comune della Natività".
Essere partecipi del proprio tempo
Alla domanda su cosa vede nell'arte di Giovanna Dejua l'occhio dello studioso, del critico d'arte, Strinati risponde: "Vedo proprio questo aspetto dell'ansia, desiderio della comunicazione. Quando ci accostiamo all'arte contemporanea sentiamo sovente dire da parte dei fruitori 'non la capisco non so nemmeno se è arte': è un giudizio che si sente spesso e altrettanto spesso proprio riguardo le opere astratte. È comprensibile: se un'opera d'arte non rappresenta nulla di esplicito, è chiaro che il fruitore può essere perplesso e si può chiedere ma allora che l'ha fatto a fare? Se non ci dice niente, allora non è arte. Invece la lezione che promana da un'artista come la Dejua è questa, cioè l'essere partecipi del proprio tempo, anzi a un livello alto, cioè condividere le forme più avanzate del linguaggio, ma con un intento assolutamente tradizionale".
Sintonizzarsi per comprendere
"L'intento dell'artista non è quello di stupirti o di metterti in difficoltà, al contrario è semplicemente l'intento di ascolto, di comprensione", spiega ancora Strinati: "E come quando ci si accosta a qualcuno che parla una lingua che noi non conosciamo bene. Qual è l'atteggiamento migliore? Sforzarsi di intenderla, non dire: Beh, non la conosco, allora non capisco niente. No, so qualcosa. Quel qualcosa ti può aiutare. Allora entrare nella comprensione. Parla una lingua difficile, l'astrazione è molto difficile. Però la parla in modo tale da fartela capire, da indurti a dire che si può capire benissimo: la parlo poco, la capisco poco, però qui vedo che posso approfondire. Posso capire che in realtà non esiste nessun artista che produce un'opera d'arte per non farsi capire. Il desiderio dell'artista è comunicare. La vedo come una figura emblematica, cioè che senza nulla rinunciare alla sua dottrina, vuole e pretende la comunicazione, cioè vuole essere intesa e mette in atto tutti gli strumenti perché ciò accada. Poi il giudizio di gusto è soggettivo. Tuttavia il caso di Giovanna Dejua è un caso in cui la bellezza, oso pronunciare questo termine, della sua arte arriva naturalmente, arriva a condizione di sintonizzarsi. Anche i nostri ascoltatori che ci sentono parlare, per poterci sentire, si debbono sintonizzare sul canale. Se non si sintonizzano, non ci sentiranno. Noi invece ci auguriamo che lo facciano".
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