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La cinquantunesima udienza del Processo in Vaticano per la gestione dei fondi della Santa Sede La cinquantunesima udienza del Processo in Vaticano per la gestione dei fondi della Santa Sede  (Vatican Media)

Processo vaticano, Peña Parra: la vicenda di Londra fu una Via Crucis

Il sostituto della Segreteria di Stato ascoltato come testimone per oltre quattro ore. Al centro dell’esame, la richiesta del prestito allo Ior che poi ha denunciato facendo partire le indagini e le trattative con il broker Torzi per riacquisire la proprietà dell’immobile di Londra: “Costretti a pagare 15 milioni di euro”

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

“Il Signore ci accompagni in questa Via Crucis”. Il messaggio inviato al suo allora segretario, sintetizza lo stato d’animo con cui monsignor Edgar Peña Parra, dovette affrontare, poco dopo essere arrivato a Roma come sostituto della Segreteria di Stato nell’ottobre 2018, le trattative per il Palazzo di Londra, oggi al centro del processo per la gestione dei fondi della Santa Sede.

L’arcivescovo venezuelano è stato il protagonista della cinquantunesima udienza nell’aula dei Musei Vaticani, ascoltato per 4 ore e mezza come testimone dagli avvocati delle difese alla cui raffica di domande il prelato non si è mai sottratto ma, anzi, ha risposto con dovizia di particolari, rivendicando il ‘lavoro’ svolto nell’arco di tempo più febbrile: la fine del 2018 e l’inizio del 2019. Ovvero il periodo in cui tutta la compravendita del palazzo di Sloane Avenue iniziava a sfuggire di mano per delinearsi in quello che il sostituto, nel memoriale del 2 giugno 2020 depositato agli atti, definisce “una truffa” a danno della Santa Sede.

Scandali e perdite 

Due le questioni principali affrontate durante l’udienza. Anzitutto il finanziamento di 150 milioni richiesto dallo stesso Peña Parra allo Ior per rinegoziare l’oneroso mutuo di Cheyne Capital che gravava sul palazzo di Londra e che faceva “perdere alla Santa Sede un milione al mese”. L’altra, le mille azioni con diritto di voto attraverso le quali il broker Gianluigi Torzi (imputato), proprietario del fondo Gutt che gestiva l’immobile londinese, ne manteneva di fatto l’intera proprietà, tanto da minacciare talvolta – secondo quanto affermato dal teste – di vendere a terzi il palazzo oppure usare le entrate per finanziare società di sua proprietà (in un caso, ad esempio, avrebbe speso 900 mila sterline).

Peña Parra, trovatosi a gestire una situazione spinosa avviata prima del suo arrivo, quello che ha ribadito più volte in aula è che cercò di evitare, oltre allo scandalo, anche la perdita di ingenti somme da parte della Santa Sede. Non solo il mutuo (“Mi faceva molto male questo pagamento”), ma anche i 4 milioni e mezzo di pounds che la Santa Sede doveva pagare a Torzi per la gestione di un palazzo che di milioni ne rendeva 3.

Perplessità

Facendo un passo indietro al suo arrivo in Segreteria di Stato, il prelato ha spiegato che “non ci fu mai un passaggio di consegne” e che venne a conoscenza delle problematiche presenti gradualmente. Anche monsignor Alberto Perlasca, all’epoca responsabile dell’Ufficio Amministrativo, lo informò solo in seguito della “situazione difficile” di Londra. E sempre Perlasca, ha detto il testimone, firmò il Framework Agreement e lo Share Purchase Agreement con la società di Torzi senza avere potere di firma e senza alcuna autorizzazione dei superiori. Peña Parra si mostrò subito preoccupato e, nel novembre 2018, si mise subito a studiare i documenti, sollevando “perplessità”: “Non sono esperto in questioni finanziarie ma ho cercato di utilizzare il buon senso e i criteri di un buon padre di famiglia”.

Rassicurazioni

Il sostituto stilò quindi una serie di domande inviate il 26 novembre all’avvocato Nicola Squillace (imputato), socio di un grande studio legale milanese: “Mi fu venduto come il nostro avvocato”. In particolare Peña Parra chiedeva cosa significassero le mille azioni sul palazzo, chi fosse Torzi, chi fosse Raffaele Mincione (l’altro finanziere, anch’egli imputato, proprietario del fondo Goff che aveva precedentemente in pancia il palazzo di Sloane Avenue), quali fossero i rapporti tra i due e via dicendo. Squillace rispose in modo circostanziato e puntuale ad ogni quesito “rassicurando tutti i dubbi”, cioè che tutto si muoveva a favore della Santa Sede. Anche quando si rivolsero all’Ufficio del Revisore generale per sottoporgli la questione e il revisore Alessandro Cassinis Righini evidenziò delle criticità, “noi siamo comunque andati avanti”, perché rassicurati dall’avvocato. “Dico noi perché il cardinale Pietro Parolin aveva visto l’appunto e disse: se è così come ti hanno rappresentato, procediamo”.

Inganno assoluto

Un mese dopo, tuttavia, Peña Parra fu convocato dal Papa a Santa Marta dove trovò l’avvocato Manuele Intendente e Giuseppe Milanese, entrambi a conoscenza della vicenda Londra: “Mi spiegarono che quello che era stato fatto prima non era servito: avevamo acquisito scatole vuote”.  “A Natale ci ritroviamo che tutto è stato un inganno assoluto”, ha affermato il sostituto. L’indicazione fu di “ricominciare di nuovo e perdere meno possibile il denaro”. A gennaio “dovevamo reagire, non c’era nient’altro da fare che studiare delle possibilità” per uscirne. Una era intentare una causa contro Torzi, come suggeriva Perlasca, senza peraltro mai chiarire se civile o penale. Si optò invece per “trattare”, anche perché l’eventuale causa civile avrebbe avuto tempi lunghi e nessuna certezza dell’esito. Trattare significava liquidare il broker per estrometterlo dalla gestione dell’immobile così da riacquisirlo al 100%.

Il sostituto Peña Parra ascoltato in aula come testimone
Il sostituto Peña Parra ascoltato in aula come testimone

Costretti a pagare

Peña Parra convocò quindi una riunione del board Gutt: “Ero disperato… Dopo ho saputo che c’erano state riunioni, mai sono stato informato”. Il 23 dicembre è avvenuto l’incontro “e la prima cosa che fa Torzi davanti a me, nel mio studio, è stato cacciare dal board Gutt Fabrizio Tirabassi”, l’ex funzionario dell’Ufficio Amministrativo (imputato). Rimasto “senza interlocutori”, l’arcivescovo decise allora di coinvolgere prima il consulente Luca Dal Fabbro e poi il suo segretario particolare, monsignor Mauro Carlino, addentro entrambi nella trattativa londinese, per parlare con Torzi e “capire quanto voleva per uscire”. “Carlino ha fatto il suo dovere con competenza e lealtà”, ha assicurato il sostituto. Nelle trattative “si pensava all’inizio a un milione e mezzo di euro, massimo 3. A fine marzo Torzi chiedeva 25 milioni, poi è tornato a 20. Dopo si è arrivati a 15”. 

Quindici milioni di euro, senza alcuna manleva, è stata la cifra in effetti pagata a Torzi in due tranche: 10 milioni (“Era il famoso 3% che appariva nel documento di vendita del palazzo”) e 5 milioni (“Erano i sei mesi di lavoro e poi di mancato guadagno”). “Ci siamo visti costretti. Per me è stato un profondo dolore constatare che dovevamo dare ancora soldi per questa faccenda. Torzi aveva il potere e non potevamo fare in altro modo”, ha affermato Peña Parra. Davvero, ha ribadito, “è stata una Via Crucis, anzi una doppia Via Crucis. Se il Signore è caduto tre volte, noi sei”.

Una immagine dell'udienza
Una immagine dell'udienza

La richiesta di un prestito allo Ior 

Sulla questione Ior, il sostituto ha spiegato di aver coinvolto l’Istituto per ottenere un rifinanziamento a condizioni vantaggiose. “Il mutuo ci costava un milione al mese”, ha detto in aula, “era un crimine usare in questo modo i soldi della Santa Sede. Non ci voleva Einstein per capire l’importanza di estinguere quel mutuo... Si è pensato con i superiori della Segreteria di Stato di fare una cosa interna per evitare anche di pagare interessi fuori”. A febbraio ci furono “trattative verbali” con i direttivi Ior, poi il 4 marzo la richiesta ufficiale. I vertici dell’Istituto per le Opere di Religione avevano garantito il finanziamento: “I soldi sono disponibili”.  Poi, nel corso di una riunione tenutasi il 25 luglio, lo Ior ritorna sui suoi passi. Lo fa 23 giorni dopo che lo stesso Istituto, insieme al Revisore Generale, avevano presentato la denuncia che ha fatto partire le indagini. Il presidente Jean-Baptiste De Franssu nel suo interrogatorio del 16 febbraio ha affermato che l’Istituto decise di non procedere sulla base delle informazioni raccolte dall’Ufficio Compliance che evidenziava rischi di riciclaggio e soprattutto a causa del fatto che la Segreteria di Stato non aveva mai presentato la documentazione richiesta: “Fummo costretti a denunciare”. Peña Parra ha chiarito comunque di aver mantenuto buoni rapporti con lo Ior e i suoi vertici: “Quando mi hanno detto di no, non c’è stata nessuna crisi. Non ho avuto nessun problema con lo Ior e le persone dello Ior”, ma “avrebbero potuto dire subito che non potevano”, così “non avremmo buttato tanti soldi”.

L’interrogatorio proseguirà domani mattina con il controesame.

L'udienza del processo nell'aula dei Musei Vaticani
L'udienza del processo nell'aula dei Musei Vaticani

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16 marzo 2023, 17:00