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Il Cammino di Santiago di Compostela nella regione della Galizia, nel nord-ovest della Spagna Il Cammino di Santiago di Compostela nella regione della Galizia, nel nord-ovest della Spagna 

Ma il cammino non finisce a Santiago

"Il cammino di Santiago è un’esperienza di vita vera." Questa la testimonianza di un giovane che ha deciso di compiere a piedi il Cammino di Santiago de Compostela, in Galizia, spinto da un invito interiore: "rialzati e cammina". Le scoperte, le domande e le risposte colte lungo la strada, la sensazione della vicinanza costante di Dio e la gioia della compagnia di persone con cui condividere i passi. A pubblicare l'articolo è L'Osservatore Romano di oggi

di FRANCESCO DONAT-CATTIN

Sono ormai passati due anni e mezzo da quando sono andato e tornato da Santiago de Compostela, e di strada ne ho fatta da allora perché è proprio vero: il cammino non finisce a Santiago. Questa frase, per chi ha fatto il Cammino (o altri pellegrinaggi a piedi), ha un senso tutto suo, che personalmente all’inizio ignoravo, o non capivo, come tante altre cose che mi venivano dette, su Santiago, ma anche sulle varie “Santiago” che nella mia vita avevo fino a quel momento raggiunto senza saperlo. Perché Santiago è così: rende ragione di ogni passo fatto, non solo in quel cammino, ma in tutto il “cammin di nostra vita”. Fa nuove tutte le cose e ricapitola tutto in sé, proprio come Qualcuno, ma andiamo per gradi.

La realtà del pellegrinaggio la conobbi una sera di febbraio di ormai tre anni fa, la sera stessa che conobbi colui del quale, una notte, mi era stato detto «il mio messaggero è in arrivo!» (cfr. Malachia, 3, 1). La cosa buffa è che mi era stato detto senza che io l’avessi chiesto, o meglio: come sempre succede chiedevo altro. Dunque conobbi colui che avrebbe preparato la via al Signore, un sacerdote pellegrino. E così fu: preparò la strada, «e subito entrò nel suo tempio il Signore, che io cercavo» (cfr. ibidem, 3, 1), senza troppo saperlo. Furono mesi molto intensi, parlavamo spesso, e spesso molto a lungo, ma senza la pretesa di raccogliere frutti nell’oggi. Ogni giorno lui seminava e io stavo là, fermo, e ascoltavo, anche un po’ incredulo, perché senza particolari meriti: proprio come il cieco nato un giorno mi ritrovai seduto, cieco e mendicante e il giorno dopo vedevo. Era bastato semplicemente gridare quella notte. Non c’era molto da dire: di questo io non ne ero capace.

Ma nonostante tutto, nonostante la vittoria sulla morte e le innumerevoli grazie di cui si costellavano i giorni, qualcosa in me rimaneva dubbioso, incredulo, ma di quell’incredulità antica che rasentando l’ostinazione si colloca per lo più nella paura; avevo fatto pace con Dio e con la mia storia ma era solo il primo passo: in me, al di là di Dio, molte domande rimanevano sospese, a metà strada, come in un guado, e tutte le mie paure, dalla prima all’ultima, in realtà erano ancora là, ferme, accovacciate alla mia porta. Ora che ne vedevo i contorni mi resi conto che erano successe tante cose nella mia vita, forse troppe per un ragazzo di 22 anni, e così si fece prepotente in me il bisogno di «vedere faccia a faccia le ombre della notte». Ora vedevo, sì, ma «come in uno specchio, in maniera confusa», direbbe san Paolo. Mi chiedevo chi mi avesse toccato, ma mi iniziai a chiedere anche — e per la prima volta in vita mia — chi fossi e dove stessi andando, con il vago presentimento che le due cose avessero una stretta relazione. Per un verso ero stato fermo su un divano e Qualcuno era venuto a farmi visita nel mio sepolcro dicendomi «rialzati», ma per un altro non avevo ancora ripreso il ritmo della vita, e mi vedevo arrancare all’università senza centrare mai l’obiettivo prefissato, che iniziava tra l’altro a non essermi neanche più così a fuoco. Molto più brutalmente non sapevo darmi risposta a queste tre domande: perché studiare? Perché studiare scienze politiche? E per chi studiare?

Così presto la mia vita iniziò a starmi stretta, a essere poca roba: c’era Dio ora, ma Dio aveva senz’altro qualcosa da dirmi! O quantomeno avrebbe saputo rispondere meglio di me alle mie domande: se non si ha la chiave di lettura giusta, pensai, si rischia veramente di rimanere increduli come davanti a un fatto indecifrabile che può significare tutto o nulla allo stesso tempo. Il mio professore di escatologia direbbe che a nulla servirebbe essere messi davanti alla risurrezione se non si avesse in mano la chiave per aprire la porta del mistero, e così decisi di lasciare tutto e partire per questo famoso (all’epoca un po’ meno) Cammino di Santiago. O meglio, decisi di rispondere a una chiamata ormai impellente: «rialzati e cammina!». Feci le valigie, anzi, lo zaino, e partii, verso questo “famoso” Somport (il valico pirenaico dove inizia il Camino Aragonés, uno dei rami del Camino de Santiago, ndr). Decisi di darmi del tempo, anzi: di darGli del tempo, perché avevamo molte cose di cui parlare. Ma ovviamente non sapevo realmente di cosa avremmo dovuto parlare, e soprattutto di come ne avremmo parlato.

Da quando sono tornato da Santiago ho sempre avuto chiare due cose: il desiderio che tutte le persone a me care facessero il Cammino di Santiago e la certezza che non avrei potuto mai e poi mai spiegare loro che cosa il Cammino realmente fosse, perché è e resta un bellissimo segreto fra chi lo fa e Dio. Camminando ti rendi conto che quella strada è il luogo del dispiegarsi della tua intera vita, oltre il mero sasso o la mera collina, anzi, proprio attraverso il sasso o la collina, e ancor più proprio attraverso il mero pellegrino tedesco di 62 anni con cui non puoi comunicare se non a gesti o la signora spagnola nel fior fiore della sua vecchiaia che ha deciso di vivere il resto dei suoi giorni offrendo, in desolati e calienti pomeriggi di mezza estate, un bicchiere d’acqua o una mela a ignoti pellegrini che non rivedrà mai più proprio come te. E ti accorgi che sul cammino non sei solo, mai, anche quando sei solo. Personalmente, bastarono 48 ore per capire come Dio mi avrebbe parlato: facendomi aderire ben bene con i piedi, ma direi anche con la faccia, alla realtà. E di questo gliene sono profondamente grato. Potrei poi soffermarmi su questa adesione al reale, su come ben presto (più o meno dopo dieci chilometri) ci si accorga che lo zaino non sia poi così leggero come si credeva e che c’era un motivo se ti dicevano di portare il cappello; ecco, uno dei tesori che ho accumulato senza accorgermene lungo il cammino è stato l’imparare a prendermi cura di me, l’importanza delle cose fatte bene, l’importanza del cappello o della crema solare, ma anche del fermarsi ogni tanto e togliersi le scarpe, ma non per “togliersi qualche sassolino” bensì per bucare qualche vescica e far prendere aria ai piedi.

Penso che un tempo ascoltandomi parlare oggi mi sarei dato del vecchio, o comunque dell’esaltato, ma un tempo non avevo attraversato la Spagna, munito solo di uno zaino, per chilometri e chilometri di asfalto, sterrato e fango, e non sapevo della gioia di andare al ritmo della vita e sentirsi esattamente al posto giusto nel momento giusto. Così come non sapevo di portare da sempre uno zaino tanto invisibile quanto grande sul groppone. Ci sono cose di cui ti accorgi già quando sei in cammino, come del fatto che in realtà, a ben vedere, è una vita che non sei solo, oppure della netta sensazione di essere fatto per camminare, fino a credere di non aver mai fatto altro in tutta la vita; oppure ti accorgi che anche lì ci sono dei deserti, e che tecnicamente si chiamano mesetas, ma che puoi farteli amici; e poi ci sono frutti che raccogli col tempo, una volta a casa, come per esempio quella per cui anche se ti sforzi di raccontare un fatto, un episodio del tuo cammino, ti accorgi già alla scelta del nesso relativo con cui iniziare la frase che in realtà purtroppo non è possibile, o per fortuna. Certe cose bisogna viverle, c’è poco da fare. Ecco, questa cosa per quanto mi riguarda è una conquista vera e propria e attribuibile solo al Cammino: prima di quegli 858 chilometri credevo che le cose si potessero vivere anche “da fuori”, ascoltandole o capendole, ma la vita, come il cammino, va vissuta. Bisogna viverle certe cose, buttarcisi dentro con tutto ciò che si è. La vita, nonostante tutto, nonostante il cinismo o il sentimentalismo che ci attentano di continuo, è qualcosa di stupendo e indescrivibile.

Per questo anche il Cammino di Santiago lo è: perché è un’esperienza di vita vera, al contrario di tante altre “esperienze” in realtà totalmente insignificanti ed episodiche. E in questo senso allora il cammino non finisce a Santiago: perché semplicemente la vita non inizia al Somport. Certo, vi sono delle differenze: nella vita non vi sono frecce gialle a ogni bivio, o mete così chiaramente prestabilite, o giorni così soleggiati, ma sicuramente vi sono viandanti come noi, pellegrini tedeschi di 62 anni che possono farsi compagni di viaggio e signore spagnole in pensione messe apposta sul cammino per indicarci la strada o anche solo per donarci un sorriso. E vi è Dio. Nella vita vi è Dio e Dio fa in modo che frasi che potrebbero sembrare vuote come “la meta è il viaggio” si riempiano quotidianamente di senso, passo dopo passo, anche quando il peregrinare si fa più simile a un brancolare nel buio o a uno smarrirsi. Ed è per questo che il Cammino fa nuove tutte le cose e ricapitola tutto in sé: perché nel cammino, così come nella vita, dall’inizio fino alla fine, c’è Gesù con noi, Lampada sui nostri passi, Luce sul nostro cammino. Questa è la meta inattesa e il dono più grande del mio cammino: una certissima luce.

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24 luglio 2021, 15:12