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Coronavirus: la vestizione del personale sanitario Coronavirus: la vestizione del personale sanitario  

Pandemia: il lavoro prezioso degli addetti alle pulizie

Nell’articolo di Annalisa Teggi, pubblicato oggi dal quotidiano vaticano "L'Osservatore Romano", una riflessione che nasce dal lavoro silenzioso ma molto rischioso, in questo periodo, di quanti sanificano gli ambienti ospedalieri e spesso sono presenza preziosa accanto ai malati privi del conforto dei famigliari

Annalisa Teggi

Sonia si alza alle 4.30 di mattina, è abituata; un’ora dopo è al lavoro. Prima che sorga l’alba, vegliamo nell’attesa era il mio inno preferito quando all’università ero più fedele di oggi a recitare le lodi mattutine. L’attesa, allora, mi sembrava un respiro grande e buono e foriero di felicità; ora, chiusa in casa, l’attesa mi pesa e opprime i pensieri. Ogni mattina mi sembra che ricominci il protrarsi di uno sforzo inutile, ma ho guadagnato un’ipotesi nuova da chi è costretto ad alzarsi così presto.

Anche Laura si sveglia prima che sorga l’alba e con lei molte altre che noi chiamiamo "donne delle pulizie"; salutano la loro famiglia quando figli e mariti dormono ancora e vanno lì, nel luogo da cui noi speriamo proprio di stare alla larga, l’ospedale. Il ruolo ufficiale di Sonia e Laura è "addette alle sanificazione" perché fare le pulizie in un contesto sanitario non è affatto come passare l’aspirapolvere a casa propria. Prestano servizio in Veneto (Treviso e Vicenza, per la precisione), una delle regioni più colpite dal contagio e sono in prima linea insieme a tutto il personale medico e infermieristico.

Strano, non ci avevo pensato; perché ci sono delle presenze che non vediamo, o meglio il cui ruolo è così umile da non guadagnarsi la nostra consapevole attenzione. Però è bastato poco per rendermi conto di quanto l’invisibilità di Laura e Sonia sia sempre stata essenziale e oggi lo è ancora di più: se noi siamo richiamati ad avere una cura attentissima per la nostra igiene, a maggior ragione in un ospedale la sanificazione è un’operazione salvavita in piena pandemia. Laura me lo dice sorridendo ma con decisione: "In ogni millimetro di superficie che pulisco, potrebbe essere annidato il virus. Non posso trascurare nulla". Pulire più che mai possiede la solerzia – verrebbe da dire materna – di chi ha a cuore non tanto i pavimenti e le pareti, ma chi è ospitato in quelle stanze.

Ed è da questo pertugio che inizia una storia piena di dolorosa speranza: sì, perché quei malati che combattono il coronavirus in isolamento e lontananza dai propri cari, non sono così completamente soli come enfatizzano certi titoli. È ingiustificabile cavalcare l’onda della disperazione in queste settimane: il dolore dell’isolamento causato dall’epidemia è una ferita che merita una carezza. Noi cristiani sappiamo che nessuno in un letto d’ospedale o in una terapia intensiva è lasciato solo dal Cielo, e gli angeli custodi non sono affatto un placebo per l’anima. Ma c’è anche un esercito terreno di angeli. Tiziana, infermiera all’ospedale di Crema, confessava che una delle premure che l’assalgono a ogni fine turno è ripensare se ha dato il conforto adeguato a ogni malato (non solo le medicine!) e se ha recitato L’eterno riposo per ogni paziente deceduto. Ecco, queste presenze vincono già con un anticipo terreno di misericordia l’ombra di una disperazione che nasce dall’incubo di essere esclusi da un abbraccio.

Anche signore come Laura e Sonia entrano nelle stanze di isolamento e terapia intensiva, certo per igienizzare eppure consapevoli di poter regalare un sorriso e parole di conforto. "È dura vedere i pazienti che ti guardano muti e con gli occhi spalancati dietro il respiratore". Quando Sonia mi ha detto queste parole al telefono ho fatto silenzio per un po’. E lei è andata avanti a raccontarmi di una sua collega che ha consolato un’anziana ricoverata. Quando in un reparto accadde un decesso, o più, tutto si ferma per rispetto della salma da trasportare con premura, per rispetto dei pazienti che non devono essere traumatizzati, in ottemperanza alle doverose e rigide norme sanitarie. La collega di Sonia si è trovata bloccata in un corridoio in attesa che il personale medico trasportasse via diverse salme e un’infermiera le ha chiesto la cortesia di poter far compagnia a una paziente sola che, forse intuendo l’accaduto, si era messa a piangere. A pensarci teoricamente, ci vorrebbero grandi competenze psicologiche per affrontare la situazione, e invece a una semplice addetta delle pulizie è stato chiesto, all’improvviso, di consolare una sconosciuta in gravi condizioni di salute. Ecco, la vita ci catapulta lì dove c’è bisogno anche se siamo impreparati, anche se lenire la paura altrui non significa essere immuni da tanto tremore. Si saranno scambiate parole molto semplici, forse avranno anche pianto assieme; in fondo, non c’era bisogno di altro. C’è tanto di bisogno di essere e stare, in questi giorni. Se carenti di competenze adeguate, abbiamo la nostra nuda presenza da dare.

Abbiamo tutti imparato il significato dell’acronimo DPI (dispositivi di protezione individuale), ma nessuna mascherina certificata o camice può proteggerci da una ferita che resta e resterà esposta. Siamo fragili, l’abbiamo capito (ce lo ricorderemo?). Di questa fragilità vedo un ritratto autentico quando Sonia mi racconta le procedure di vestizione prima di entrare in un reparto di isolamento tra gli ammalati di Covid19. C’è una stanza intermedia prima di varcare la linea rossa, da quel punto in poi il silenzio dell’ospedale comincia a farsi assordante. Bisogna essere in due per indossare correttamente i DPI, cioè bisogna lasciarsi vestire da una collega; per allacciare un camice il gesto che si fa è quasi quello di un abbraccio e a Sonia viene sempre il groppo in gola. Tre paia di guanti, gli occhiali, la cuffia e tutto il resto; e poi si entra. Per quattro ore non si beve e non si va in bagno. Per tutto il tempo si condivide il dramma dei malati, si riconoscono volti amici, si fa i conti con l’ipotesi che potrebbe toccare a tutti, si fa al meglio la sanificazione.

Solo più tardi, ripensando a tutte le parole scambiate con Laura e Sonia, ho intuito che per l’ennesima volta nella storia minuta del mondo l’umiltà si fa strada. Lo dico in modo diretto: le "donne delle pulizie", le invisibili e snobbate, ora sono lì dove ai più è interdetto l’accesso; una volta di più la piccolezza può qualcosa che forze più grandi non possono. Se è chiaro il ruolo insostituibile e valoroso di medici e infermieri, l’umile presenza nelle stanze del patire degli addetti alla sanificazione veste quei luoghi di una premura domestica, il prolungamento della voce di casa. C’è chi si accorge di questo e improvvisamente si sente in dovere di rivolgersi loro con il titolo più onorifico di "signore delle pulizie", anche se con un po’ di orgoglio Laura ci tiene a precisare che erano signore anche prima.

L’umiltà forza i blocchi più impenetrabili. Una voce di conforto nell’isolamento arriva anche grazie a una persona munita di scopa e straccio. Non è la classica trama dei supereroi, ma è la realtà di come assai spesso vanno le cose nel mondo. È la logica di Frodo, di chi compie qualcosa di grande semplicemente essendo piccolo com’è. Tutte le incognite da cui siamo assediati trovano un argine solido per non degenerare nell’incubo: la certezza che essere al nostro posto – piccolo, infinitesimale – e dire sì all’impegno anche invisibile di ogni nostra giornata è tutto ciò di cui ha bisogno Chi continua a reggere e amare il nostro destino.
 

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03 aprile 2020, 15:40