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Monsignor Rino Fisichella Monsignor Rino Fisichella 

Sinodo, Fisichella: “rito amazzonico” frutto di inculturazione

Secondo l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, la creazione di un ‘rito amazzonico’ permetterebbe una disciplina aperta a nuovi ministeri e eventualmente al ‘clero uxorato’

Fabio Colagrande - Città del Vaticano

“Quando l’annuncio del Vangelo raggiunge una cultura, si incultura attraverso quelle forme più coerenti per esprimere il mistero”. Lo ha ricordato recentemente nel corso di un briefing del Sinodo amazzonico in sala stampa, l’arcivescovo Rino Fisichella, che partecipa all’assemblea come presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Il presule ha citato in proposito la proposta, fatta durante i lavori nei ‘circoli minori’ di intraprendere la via di un ‘rito amazzonico’ che permetta di sviluppare la ricchezza singolare della Chiesa cattolica locale. Ai microfoni di Radio Vaticana Italia, approfondisce il tema, cominciando con raccontare le sue impressioni generali su questa assemblea speciale.

R. – Devo dire che in questo Sinodo si vive un bel clima: un clima di ascolto, di confronto, un dialogo reale. A differenza di altri Sinodi, non ci sono particolari elementi che possano suscitare dibattiti accesi. Devo dire che per molti di noi, soprattutto per me, quello che si ascolta è una realtà completamente nuova. L’Amazzonia è distante, noi la pensiamo sempre e soltanto come un’unica realtà e invece sono culture diverse, popolazioni differenti. Non dimentichiamo che sono presenti e coinvolte nove conferenze episcopali diverse, ci sono – tra le altre cose – anche centinaia di popolazioni diverse l’una dall’altra che in unità realizzano quella che noi chiamiamo la realtà degli “indigeni” e la “cultura indigena” … C’è una dimensione che abbiamo scoperto poco alla volta, molto più plurima, molto più differenziata di quanto per noi occidentali, europei, italiani possa sembrare.

Uno degli obiettivi del Sinodo è, appunto, riflettere su possibili nuovi cammini per la Chiesa che è in Amazzonia, anche dal punto di vista dell’evangelizzazione. Secondo lei, stanno nascendo spunti che sono importanti, utili anche per la Chiesa universale?

R. – Mi sembra di sì. Nei circoli minori che abbiamo avuto e che continueranno ancora, sono emerse diverse situazioni e progetti anche molto concreti. Si va dai progetti più immediati di come aiutare le popolazioni a conservare la propria identità, a progetti che aiutano invece a sostenere anche economicamente il lavoro delle popolazioni indigene; così come poi ci sono nel confronto altre situazioni che sono emerse: quella della realizzazione, dopo il Sinodo, di un gruppo di vescovi, laici, persone consacrate, sacerdoti che possono essere coinvolti più direttamente nel dare continuità al Sinodo. È emersa la proposta, in un circolo minore, di un “rito amazzonico”, vale a dire dare consequenzialità all’opera di evangelizzazione quando si incontra con la cultura. E ovviamente, lo abbiamo detto, le culture sono tante, però creare il rito equivale a ritrovare un elemento basilare, un denominatore comune che consenta alle popolazioni indigene di celebrare la liturgia e quindi i sacramenti. Ma anche, e questo è importante, di costituirsi all’interno di una realtà, come quella dell’Amazzonia, con una propria spiritualità, con una propria riflessione teologica e - perché no? - anche con una propria disciplina, quindi con una struttura della vita comunitaria che diventa peculiare per quel territorio.

Dal punto di vista pastorale, questo potrebbe aprire anche il discorso della creazione di nuovi ministeri per i laici? Dell’assegnazione di ministeri anche alle donne o, addirittura, alla possibilità dell’ordinazione di uomini anziani sposati, evocata dall’Instrumentum laboris?

R. – Non dimentichiamo che oggi nella Chiesa cattolica abbiamo almeno 23 riti diversi; questi 23 riti non sono sorti contemporaneamente, ma nel corso dei secoli. L’ultimo è stato istituito nella seconda metà del 1700. Ci sono riti che, proprio perché sono pensati in questo modo, esprimono l’unità, la cattolicità della Chiesa ma nello stesso tempo vogliono manifestare la pluralità delle culture dove il Vangelo viene annunciato. La Chiesa cattolica conosce pienamente il rispetto per le culture e la complementarietà che le varie culture hanno quando si deve celebrare, testimoniare, riflettere sul mistero della fede e quindi non vediamo, a oggi, conflittualità tra questi riti. Vediamo piuttosto una complementarietà e, anzi, la conservazione delle varie identità delle popolazioni. Quindi l’istituzione eventuale di un nuovo rito comporterebbe anche una condizione, forse, di ristrutturazione della stessa comunità che non necessariamente va a ripercorrere quella del rito latino. Il rito latino – non dimentichiamolo – sorge intorno al IV secolo ed è per una popolazione che ormai da 2000 anni circa vive di questa identità. Le popolazioni indigene, recentemente evangelizzate, hanno bisogno di una espressione della fede e della testimonianza che potrebbe avere, come in altri riti, il clero uxorato che è ugualmente presente accanto al clero celibatario; ovviamente dovrebbe avere anche una ministerialità che si apre alla promozione della donna. Ma sempre mantenendo fermo quello che è il tema della fede condivisa da tutti. Quindi, l’istituzione di un rito non è in contraddizione o in opposizione a quello che la Chiesa ha sempre creduto e sempre professato, e tutti hanno professato nella propria fede, ma viene ad essere invece un sostegno ulteriore per esprimere un’identità culturale differente.

Ascolta l'intervista a mons. Fisichella

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22 ottobre 2019, 14:12