Il card. Kurt Koch Il card. Kurt Koch 

Chiese cattolica ed ortodossa russa in difesa della vita

Il card. Koch e mons. Paglia sono intervenuti ieri a Mosca, al colloquio per ricordare la dichiarazione congiunta firmata a Cuba da Papa Francesco e il Patriarca Kirill nel 2016. Nella difesa della vita la Chiesa ortodossa russa e quella cattolica hanno trovato un campo di azione comune

Si è trattato del terzo incontro del genere dopo quelli di Friburgo nel 2017 e di Vienna nel 2018, e quest’anno ha avuto per tema il «fine vita». Intervenendo ai lavori, svoltisi nel Saints Cyril and Methodius Theological Institute of Post-Graduate Studies, il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha ringraziato il metropolita Hilarion che ne è rettore, rimarcando l’apertura di un nuovo capitolo nelle relazioni tra le due Chiese. In proposito ha citato il pellegrinaggio delle reliquie di san Nicola nella capitale russa e a San Pietroburgo, venerate da milioni di fedeli nel giugno 2017; la successiva visita, ad agosto, del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin; a livello accademico, i corsi estivi organizzati in collaborazione per permettere ai giovani sacerdoti di acquisire una migliore conoscenza reciproca; e, a livello culturale, le mostre congiunte dei Musei vaticani e la galleria Tretyakov. «Questi sono solo alcuni esempi dei legami che vengono gradualmente intessuti tra le nostre Chiese per riparare, filo dopo filo, la tunica strappata di Cristo», ha commentato il cardinale Koch.

La sfida sulla questione del fine vita

Passando quindi al tema del colloquio, il porporato ha rimarcato come la questione del fine vita sia «sempre stata una sfida, dato che l’uomo è l’unica creatura consapevole della propria condizione mortale. Questa sfida si presenta oggi in una nuova forma grazie ai progressi nella conoscenza e nella tecnologia medica». Infatti, ha aggiunto, «nelle società moderne, la morte di solito si verifica in ospedale, ed è spesso il risultato di una decisione medica, sia che si tratti della cessazione di un trattamento, sia del non inizio dello stesso». E tutto ciò solleva «la questione del significato della sofferenza per i cristiani, di ciò che intendiamo per “dignità”» del malato, e «di sapere se ciò che è buono per il corpo è sempre al servizio del bene integrale della persona».

Excursus storico sulle principali tappe della riflessione della Chiesa sul fine vita

In proposito il cardinale ha ripercorso attraverso un excursus storico le principali tappe della riflessione della Chiesa sull’argomento. Già nel 1957, infatti, Pio XII, nel discorso pronunciato davanti a un’assemblea internazionale di 500 medici riuniti a Roma, si dichiarò a favore delle cure palliative e contro ogni trattamento aggressivo. Nel 1980 tali posizioni furono sviluppate in un documento della Congregazione per la dottrina della fede, la dichiarazione Iura et bona sull’eutanasia, i cui principi sono stati chiaramente riassunti nel Catechismo della Chiesa cattolica. Essi ricordano il carattere moralmente inaccettabile dell’eutanasia, il rifiuto di qualsiasi trattamento “troppo zelante” e l’obbligo di cure ordinarie. Inoltre, estendendo quest’ultimo principio, il Catechismo incoraggia le cure palliative, definite «una forma speciale di carità disinteressata». E in proposito il presidente del dicastero vaticano ha richiamato anche il magistero di Papa Francesco, quando in occasione del meeting europeo della World Medical Association, svoltosi in Vaticano nel novembre 2017, scrisse che nella pratica clinica e nella medicina in generale «occorre tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile» e «se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura».

In sintonia con i pronunciamenti della Chiesa ortodossa russa

Posizioni che il card. Koch ha riscontrato anche nei pronunciamenti della Chiesa ortodossa russa, in particolare nelle Basis of the Social Doctrine of the Russian Orthodox Church adottate dal consiglio di Mosca del 2000, che propongono una notevole riflessione su questo tema.

Mons. Paglia: una globalizzazione senza l’ispirazione cristiana è povera di amore

Dal canto suo mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, nel suo intervento nel corso del colloquio, ha sottolineato che «Una globalizzazione senza l’ispirazione cristiana è povera di amore e in preda ai conflitti; e il compito del mondo cristiano consiste nel rimettere al centro le relazioni tra le persone». Curare, ha spiegato il presule, significa prendersi cura degli altri, come insegna il Vangelo. E in tal senso la parabola del Buon samaritano assume una nuova dimensione nella società tecnologica e iper-connessa il cui risvolto sono persone «sempre più ripiegate nei propri recinti». Nella relazione intitolata «A servizio della dignità dell’uomo, chiamato alla vita», mons. Paglia ha fatto riferimento alla lettera Humana communitas, inviata da Papa Francesco alla Pontificia accademia nel venticinquesimo anniversario di fondazione. Il documento papale è stato tradotto in russo per la circostanza e donato al Patriarcato di Mosca. Nel «prenderci cura», ha spiegato l’arcivescovo presidente, «dobbiamo occuparci della vita umana nel senso della qualità umana delle scelte che custodiscono e riaffermano il destino ultimo della vita» e allo stesso tempo prenderci cura dell’ambiente: «Siamo chiamati a riscoprire il collegamento tra le relazioni tra noi e i luoghi che ospitano le nostre esistenze».

Non si può morire da soli

Dopo aver così inquadrato le sfide, il relatore si è soffermato sul tema specifico del «fine vita» e ha sottolineato come la Pontificia accademia abbia inserito le cure palliative tra i punti qualificanti del proprio impegno. Esse accompagnano le persone nel passaggio verso la morte; non abbandonano il malato come a volte fa la medicina quando «non c’è più nulla da fare», né si indirizzano verso un «accanimento terapeutico». Per le cure palliative, ha aggiunto, «non abbiamo pazienti» ma «abbiamo persone, con tutto il loro bagaglio fisico, psicologico, culturale e spirituale»; di conseguenza occorre riconoscere «accanto ai malati» anche «la presenza dei familiari e di quanti operano per la loro salute». Inoltre le cure palliative «ricollocano la persona sofferente, anche quella che si appresta al passaggio della morte, dentro le sue relazioni fondamentali, familiari e sociali». Perché, è stata la denuncia del presule, «non si può morire da soli. L’esperienza dice che la domanda di eutanasia o di suicidio assistito è nella quasi totalità dei casi figlia dell’abbandono sociale e terapeutico del malato». Al contrario, «una volta che si sia messa in atto una valida presa in carico multidisciplinare del paziente e coinvolta positivamente la rete di relazioni affettive e professionali, è rarissimo trovarsi di fronte a una richiesta di morte».

Il cristianesimo può aiutare l’umanità intera a cogliere le sfide della vita

Del resto, ha concluso il presidente della Pontificia accademia, «la sequela del Signore Gesù, medico dei corpi e delle anime, ci affida la responsabilità nei confronti delle vite degli uomini e delle donne, soprattutto dei più piccoli e dei più poveri, di oggi e delle generazioni future. È una sfida grande, per la complessità del mondo che viviamo e per la vastità del suo orizzonte. Certo non può essere ridotta a una semplice questione tecnologica. Il cristianesimo può davvero, in questa epoca, aiutare l’umanità intera a cogliere le sfide della vita in una dimensione umanistica e spirituale imprescindibile, essenziale».

 

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13 febbraio 2019, 08:07