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Francesco: il cristianesimo trasforma il mondo se si fa Vangelo

Testo inedito del Papa nel libro della Libreria Editrice Vaticana “Il cielo sulla terra. Amare e servire per trasformare il mondo”. Il volume uscirà il 24 novembre. Prefazione di Martin Junge, segretario generale della Federazione Luterana Mondiale

Papa Francesco

Si può ancora credere alla possibilità di un mondo nuovo, più giusto e fraterno? Si può davvero sperare in una trasformazione delle società in cui viviamo, dove a dominare non sia la legge del più forte e l’arroganza del dio denaro, ma il rispetto della persona e una logica di gratuità? Immagino l’espressione sul volto di tanti, di fronte a queste parole, a queste “ingenue” domande. Una leggera piega delle labbra, curvate in un sorrisetto di scetticismo o nel migliore dei casi di commiserazione che ci porta a vivere nella società del disincanto.

Dobbiamo prendere dunque atto che il mondo è immodificabile, con le sue ingiustizie che “gridano vendetta al cospetto al Dio”? E a noi uomini di Chiesa resta solo il compito di predicare passiva rassegnazione o enunciare con doverosa ripetitività princìpi tanto veri quanto astratti?

Nessuna mente onesta può negare la forza trasformante del cristianesimo nel divenire della storia. Ogni volta che la vita cristiana si è diffusa nella società in modo autentico e libero ha sempre lasciato una traccia di umanità nuova nel mondo. Fin dai primi secoli. La più grande novità sul piano sociale fu la considerazione del valore di ogni singola persona, sensibilità che portava a non scartare come inutili gli individui imperfetti, a trattare con rispetto gli schiavi fino a sentire come intollerabile nel tempo l’istituto stesso della schiavitù, il senso di repulsione per la crudeltà dei giochi gladiatori e lo “spettacolo del sangue”, la resilienza attuata dal monachesimo benedettino al tempo dei barbari di fronte all’abbandono dei campi e alla perdita di memoria della cultura greco-latina, la sobria bellezza delle chiese romaniche e l’orante “assalto al cielo” delle cattedrali gotiche, il rifiuto severo dell’usura e il precetto morale della “giusta mercede” per l’operaio inserito nel catechismo. Un mondo nuovo, che nasceva e prendeva forma, pian piano, dentro un mondo vecchio in disfacimento.

Come avveniva, qual è il segreto di questa formidabile trasformazione? E quale insegnamento possiamo trarne oggi, noi cristiani del XXI secolo?

Un pensatore francese degli anni Trenta, Emmanuel Mounier, diceva che l’influsso importante del cristianesimo sulla civiltà europea è stato più un “effetto collaterale” della testimonianza dei primi cristiani che un piano preordinato; più la conseguenza gratuita di una fede vissuta semplicemente che l’esito di un programma culturale-politico elaborato a tavolino: «C’è sempre tra l’inizio e gli effetti una sorta di un percorso obliquo, sembra sempre che il cristianesimo produca effetti sulla realtà temporale come per sovrappiù, quasi talvolta per distrazione».[1] È quando il cristianesimo si radica nel Vangelo che dona il meglio di sé alla civilizzazione: «infatti il cristianesimo dà di più all’agire esteriore degli uomini quando cresce in intensità spirituale, piuttosto che quando si perde nella tattica e nella gestione».[2] Naturalmente questa osservazione vale storicamente anche al negativo; lo abbiamo visto tante volte purtroppo: il cristianesimo perde il meglio di sé quando finisce per corrompersi e identificarsi con logiche e strutture mondane.

Lasciamo la superfice per andare più in profondità; come calarsi nel cuore di una fontanella per scoprire l’origine di quella forza misteriosa che, in modo imprevedibile, spinge gli zampilli tutto intorno, modificando paesaggio e territorio circostanti. La possiamo trovare, questa origine della dinamica trasformatrice cristiana, ben esemplificata nella esperienza dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, che il Signore disarcionò sulla via di Damasco col suo sguardo potente e misericordioso. «In quel momento Saulo comprese che la sua salvezza non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge, ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui – il persecutore – ed era, ed è, risorto».[3] Paolo non ha fatto nulla per incontrare Gesù, non fu sua l’iniziativa. Nulla che gli meritasse quel brusco sguardo di amore che Dio rivolse inaspettatamente a un suo “nemico politico”. Nemmeno «le opere buone compiute secondo la legge» – dice papa Benedetto – gli potevano valere la salvezza. Una gratuità assoluta, alla quale l’antico persecutore non oppone resistenza, anzi con libertà l’accoglie fino a sentire questo avvenimento come la nota dominante la sua vita. La carità di cui Paolo diventa l’appassionato testimone e che ben conosciamo attraverso le sue lettere altro non è che il riflesso misterioso di quella misericordia sperimentata nella sua vita.

Le parole cristiane nel nostro tempo spesso svaporano, smarriscono il loro significato. Amore, carità… vocaboli che oggi evocano un sentimentalismo vago o una filantropia melanconica. Per capirne il senso cristiano dobbiamo pensare proprio all’esperienza vissuta da Paolo, alla trasformazione che avviene in lui per iniziativa divina; non altera i tratti forti della sua personalità, non lo fa diventare un debole e velleitario sognatore ma un uomo dal cuore grande perché avvinto da un Amore più grande. Il suo Inno alla carità, nella prima lettera ai Corinzi, resta il “manifesto” più suggestivo della rivoluzione che Cristo porta nel mondo.

Davvero uno degli errori più antichi e sempre ricorrenti nella storia della Chiesa è il pelagianesimo, in definitiva un cristianesimo senza Grazia, la fede ridotta a un moralismo, a un titanico e fallimentare sforzo di volontà. Giustamente Agostino – così consapevole della ferita strutturale che ogni anima si porta dentro – avversò con tutte le forze l’errore di Pelagio. Il cristianesimo infatti non ha trasformato il mondo antico con tattiche mondane o volontarismi etici ma unicamente con la potenza dello Spirito di Gesù risorto.

Tutto il fiume di opere di carità piccole o grandi, una corrente di solidarietà che da duemila anni attraversa la storia, ha questa unica sorgente. La carità nasce da una commozione, da uno stupore, da una Grazia.

Fin dagli inizi, storicamente, la carità dei cristiani diventa attenzione ai bisogni delle persone più fragili, le vedove, i poveri, gli schiavi, i malati, gli emarginati... Compassione, patire con chi soffre, condivisione. Diventa anche denuncia delle ingiustizie e impegno a contrastarle per quanto possibile. Perché prendersi cura di una persona significa abbracciare tutta la sua condizione e aiutarla a liberarsi da ciò che più l’opprime e nega i suoi diritti. Il primato della Grazia non porta alla passività, al contrario centuplica le energie e accresce la sensibilità verso le ingiustizie.

«Non devi credere che rubare significhi soltanto derubare il tuo prossimo dei suoi averi; se tu vedi il tuo vicino che soffre la fame, la sete, il bisogno, che non ha casa, vestiti e scarpe, e non lo aiuti, lo derubi esattamente come chi ruba i soldi da una borsa o dalla cassetta. Tu hai il dovere di aiutarlo nel bisogno. I tuoi beni infatti non sono tuoi; tu ne sei soltanto l’amministratore, col compito di distribuirli a coloro che ne hanno bisogno».[4]

È uno sguardo nuovo quello che nasce dalla esperienza fatta in prima persona della gratuità dell’amore di Dio. Non attenua, ad esempio, anzi acuisce il senso drammatico del nostro limite, del nostro essere peccatori. Ma proprio per questo ci fa sentire più forte il bisogno di una giustizia accompagnata dalla misericordia. Scriveva il teologo nordamericano Reinhold Niebuhr: «Ogni giustizia che non sia altro che giustizia degenera rapidamente in qualcosa di meno della giustizia».[5] E Martin Lutero annotava: «La vera giustizia prova pietà; la falsa giustizia sdegno».[6]

È diverso anche il modo in cui il cristiano si impegna a fianco degli ultimi, che oggi hanno il volto degli anziani soli, dei lavoratori precari o in nero, dei rifugiati, delle persone disabili. Questo impegno non è il riempitivo di un proprio vuoto da cui magari si cerca di evadere con un attivismo “entusiasta” che alla lunga non risulta credibile e nemmeno si sostiene nel tempo.

Un abisso separa i professionisti dell’entusiasmo dall’impegno che nasce dall’esperienza di un dono ricevuto. Quando ci si accosta con sincerità alle persone vulnerabili, col desiderio di aiutarle, succede di essere rimandati alle proprie vulnerabilità. Le abbiamo tutti. E tutti abbiamo bisogno di cura, tutti abbiamo bisogno di essere salvati. Motivo per cui la carità sincera approda sempre alla preghiera, alla mendicanza della Presenza di Dio che sola può curare le nostre e le altrui ferite interiori.

C’è un altro tratto distintivo nell’azione del cristiano verso gli ultimi. È una punta di letizia che resta sempre, magari a volte sottotraccia, anche di fronte alle esperienze più negative e dolorose. È la compagnia di una Presenza che non dipende in ultima analisi dalle circostanze esterne, ma è donata, appunto; una familiarità con Gesù nella quale si progredisce giorno dopo giorno nella preghiera e nella lettura del Vangelo. Radice di una speranza di cambiamento che Charles Peguy vedeva come la virtù bambina che cammina quasi nascosta tra le gonne delle due sorelle più grandi (la fede e la carità) ma che in realtà è lei, questa speranza bambina, a tenere per mano e sostenere.

«Per non amare il prossimo, bambina,
bisognerebbe tapparsi gli occhi e gli orecchi.
A tante grida di desolazione […].
Ma la speranza, dice Dio,
ecco quello che mi stupisce.
Me stesso.
Questo è stupefacente.
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose
e che credano che andrà meglio domattina.
Che vedano come vanno le cose oggi
e che credano che andrà meglio domattina.
Questo è stupefacente ed è proprio
la più grande meraviglia della nostra grazia.
E io stesso ne sono stupito.
E bisogna che la mia grazia sia in effetti
di una forza incredibile.
E che sgorghi da una fonte
e come un fiume inesauribile.
Da quella prima volta che sgorgò
e da sempre che sgorga».
 

[1] Feu la Chrétienté, 1950, 252.
[2] Ibid., 253.
[3] Benedetto XVI, Angelus, 25 gennaio 2009.
[4] Martin Lutero, Breviario, 1996, 65-66.
[5] Uomo morale e società immorale, 1968, 181.
[6] Martin Lutero, Breviario, 109.

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22 novembre 2020, 09:00