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Esercizi spirituali ad Ariccia Esercizi spirituali ad Ariccia 

L’Abate Gianni: missione non può prescindere da comunione fraterna

Proseguono gli Esercizi spirituali per il Papa e la Curia Romana, presso la Casa Divin Maestro di Ariccia. Nella meditazione pomeridiana dell’abate Bernardo Francesco Maria Gianni la riflessione sul senso della vera accoglienza che deve partire da un’autentica fraternità in città come nella Chiesa

Giada Aquilino - Città del Vaticano

“Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società”. Parte dal Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2019 la meditazione pomeridiana proposta dall’abate Bernardo Francesco Maria Gianni nella quarta giornata di Esercizi spirituali per il Papa e la Curia Romana, presso la Casa Divin Maestro di Ariccia. La politica, ribadisce l’abate di San Miniato al Monte di Firenze, è per la pace se si esprime “nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona”.

Vera accoglienza solo da autentica fraternità

Il monaco intreccia poi le parole di Francesco con quelle del Papa emerito Benedetto XVI, pronunciato alle autorità del Benin nel novembre 2011, che evocano l’immagine di una “mano tesa” come “strumento di dialogo”. Lo fa per soffermarsi sul verso finale della poesia di Mario Luzi Siamo qui per questo: “Stringiamoci la mano, sugli spalti di pace, nel segno di San Miniato”. Padre Gianni anticipa così la riflessione sulla fraternità, rimandando a domani quella sull’accoglienza, ispirata all’immagine delle bandiere di pace che Mario Luzi ricorda essere state dispiegate sulle mura di Firenze al tempo di Giorgio La Pira.

La Chiesa, la città, possono essere esperienze di vera accoglienza se vivono anzitutto nella loro intimità un’autentica fraternità. E sentiamo che sul tema della fraternità, sul tema di mani che si incontrano per diventare strumento di dialogo, per donare e per ricevere, per far crescere il senso di appartenenza che nessuno escluda - come ci ha ben detto Papa Francesco - soprattutto le nuove generazioni, perché anche per loro ci sia la possibilità di realizzarsi, ecco che dobbiamo parlare di una esperienza decisiva della vita della Chiesa, decisiva nella mia povera esperienza di Chiesa che è la vita comunitaria, la comunità.

Un amore forte e duraturo

La parola “comunità”, spiega, rimanda direttamente alle “emergenze del nostro tempo”. Il richiamo qui è al messaggio di fine anno 2018 del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, centrato su un richiamo a “condividere valori, prospettive, diritti e doveri”, pensandosi - ciascuno di noi - “dentro un futuro comune, da costruire insieme”. L’abate pensa che negli Esercizi spirituali, puntati su una testimonianza “radicalmente” ispirata dal Vangelo di Gesù, “nel cuore del mondo, nel cuore della città, per una serie di segni, di sguardi e di gesti pasquali”, sia necessario prendere “sul serio” la parola “comunità”. E assieme soffermarsi sul ruolo e sulla missione della Chiesa “in ordine alla possibilità di contribuire in questo mondo all’edificazione di una fraternità autentica, solidale, ispirata ad un amore forte e duraturo” come quello insegnatoci da Gesù.

Liquidare tentazioni individualistiche

Il pensiero va ad una “bellissima definizione” del senso della missione del Popolo di Dio nel cuore del mondo, rileggendo la Lumen Gentium: Dio, ricorda il monaco, “volle santificare e salvare gli uomini non individualmente” ma volle costituire “un popolo che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità”. Così, spiega, è possibile liquidare “in modo definitivo qualsiasi ripiegamento e tentazione individualistica” per puntare “al vivere nella comunione e di comunione”, schiudendo “i nostri cuori” all’unità e alla concordia. Temi, questi, presenti anche nell’Esortazione apostolica post sinodale del 1996 Vita Consecrata, un testo di San Giovanni Paolo II che rimane di “fondamentale importanza” - dice padre Gianni - per tutti i consacrati: in esso Papa Wojtyla parla dell’essere “segno di fraternità ad immagine della Trinità, riflesso cioè nella storia della Trinità”. Una responsabilità che i consacrati assumono in modo tutto speciale, ma che, in realtà, è - aggiunge - un tratto “tipico” della Chiesa.

In Quaresima, ritorno al Signore

Il mistero del tempo quaresimale è “un ritorno al Signore”, “una ritrovata comunione con Lui dopo troppa dispersione”. L’orizzonte “davvero pasquale” per la conversione quaresimale non può che essere, va avanti il monaco, “l’immagine della primitiva comunità apostolica” e più ancora “l’esperienza di piena condivisione con Cristo vissuta dai Dodici”. Ciò vale, evidenzia l’abate di San Miniato al Monte, “per ogni comunità religiosa”, “per ogni cellula ecclesiale” e “per la stessa Curia Romana”, chiamata a “una sorta di vita fraterna” intorno “alla figura, al Magistero, alla fedeltà e alla lealtà” al Papa.

Qualsiasi missionarietà che vorrebbe prescindere da questa adesione al carattere comunitario, fraterno, implicato dalla stessa comunione trinitaria, è inevitabilmente una missione destinata alla rovina, al fallimento, perché si smentisce nella sua più intima identità. San Giovanni Paolo II ci ricordava come questa partecipazione alla comunione trinitaria, ed essa sola, può cambiare i rapporti umani, creando un nuovo tipo di solidarietà, additando agli uomini la bellezza della comunione fraterna e le vie che ad essa concretamente conducono.

In ascolto del Vangelo

La vita fraterna, osserva il predicatore, “non può essere uno strumento”: è al contrario un dono, un mistero, un’esperienza mistica - diceva ancora Papa Wojtyla - “di presenza del Signore Risorto in mezzo a noi”, attraverso “un amore alimentato dalla Parola e dalla Eucaristia”, “purificato nel Sacramento della Riconciliazione”, sostenuto “dall’implorazione dell’unità”, speciale dono dello Spirito per coloro che si pongono “in obbediente ascolto del Vangelo”.

È bene essere consapevoli in un tempo come quello di Quaresima di questa bellissima possibilità data al nostro cuore mediante l’ascolto del Vangelo, l’alimentare l’amore che il nostro cuore riceve con la Parola, con l’Eucaristia, purificarlo con la Riconciliazione. Vivere in una preghiera incessante. Implorare l’unità, perché essa non è affatto un dono scontato. E ancora l’esperienza di particolare connessione, intonazione della nostra vita allo Spirito Santo, che non dobbiamo mai stancarci di invocare perché la Chiesa davvero sia sempre inabitata da Esso, e come tale sia anzitutto esperienza di mistero e dunque di una bellezza che genera uno stupore indecifrabile con le sole risorse dell’uomo nel cuore della nostra gente, delle nostre persone.

Forza di coesione

L’invito è allora “ad accostarci all’Eucaristia nella consapevolezza della sua ineliminabile forza di coesione”, “per il suo misterioso essere contatto reale, comunione reale fra noi e il Signore Gesù”, “per la sua forza tutta spirituale di renderci unico corpo nel Signore”, in sintesi ad essere ciò che si invoca nella preghiera a Dio che ci ha resi “partecipi di un solo corpo e di un solo calice”: “uniti al Cristo in un solo corpo, portiamo con gioia frutti di vita eterna per la salvezza del mondo”. In tal modo, sottolinea dom Gianni sulle orme di Sant’Agostino prima e don Giussani poi, si risveglia in noi “la consapevolezza del meraviglioso dono di partecipare, per grazia e per mistero, senza alcun merito, ad una comunione che vogliamo tornare ad accogliere e a custodire con un cuore purificato dalla penitenza”.

La carne sofferente degli altri

Nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium Papa Francesco parla della tentazione di mantenere “una prudente distanza dalle piaghe del Signore”, ma Gesù - ricorda - vuole “che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri”.

La radice, il paradigma, la possibilità di questo toccare le infermità degli altri, ci viene dalla possibilità di attingere, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, al mistero pasquale, all’Eucaristia del Signore Gesù, al suo lasciarsi toccare quando visita i suoi discepoli chiusi per paura nel riparo comunitario di quella casa che Gesù attraversa, per donare la sua pace e per inviare, col suo respiro di perdono, i suoi nel mondo.

Eucaristia e città

Padre Gianni cita poi Vincenzo Rosito, docente di Teologia, autore per le edizioni Dehoniane del “Dio delle città”, per immaginare una trasfigurazione della città “nel suo ventre oscuro, pieno di contraddizioni ma anche di luminose potenzialità,” attraverso l’Eucaristia: c’è - spiega - “un affine desiderio di prossimità tra la condivisione dello stesso pane e la concordia dei cittadini”, “fra la priorità assegnata ai poveri e la giustizia invocata per gli esclusi di ogni città”. La prossimità “ha il volto e la carne dell’impoverimento di Cristo, perché la Liturgia dei cristiani è la Liturgia del povero”, la Liturgia “che manifesta un’etica di donazione, un corpo dato, un’etica di condivisione, l’unico pane per molti, un’etica di solidarietà e di carità”, la “colletta per i bisognosi”, “dove il Povero ha la ‘p’ maiuscola: è Gesù”.

E allora, in questa prospettiva, davvero smettere di guardare come principi, in modo sprezzante agli altri, ma come uomini e donne del popolo. Papa Francesco lo dice: questa non è un’opinione di un Papa né un’opzione pastorale tra le altre possibili. Sono indicazioni della Parola di Dio chiare, dirette, evidenti. Viviamole senza glossa. Numero 271 di Evangelii Gaudium: “In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita – la vita – con il popolo fedele a Dio, cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo”.

La gioia missionaria

In fondo, nota l’abate, sono le immagini che riassumono “la poesia di Luzi”, i pensieri di Giorgio La Pira, le sue stesse meditazioni: “condividere la vita pasquale con il popolo fedele a Dio mediante la gioia missionaria, mediante questa vita eucaristica”. E allo stesso tempo “accendere il fuoco nel cuore del mondo, perché siamo la luce, inviata, donata, dal Signore”.

Restituire con la luce, ad ogni uomo e donna inghiottito dalle tenebre del peccato, della disperazione, della disillusione, della solitudine, la bellezza della vocazione cristiana, la coralità di una trasfigurazione che riscatta la nostra vita e la pone in questo respiro alto, di bellezza, di gioia, che tante volte evochiamo come frutti bellissimi che il Signore a piene mani dona ai nostri cuori e vite.

Stringerci la mano

È un invito al “coraggio di vivere e di agire” quello che emerge dalle parole del monaco benedettino soprattutto in città “dove siamo invece spesso costretti ad incontrare persone che vogliono smettere di vivere”, che si accontentano “di una mera sopravvivenza”, “che rifiutano di agire salvo lo stretto necessario, per tirare avanti, nulla di più”. L’espressione che padre Gianni ripropone è ancora una volta tratta da parole del sindaco di Firenze La Pira, che nel 1954 inaugurò un quartiere costruito “soprattutto per gli esuli giuliano-dalmati, i tanti costretti, dopo la guerra, a lasciare la terra di Dalmazia e dell’Istria”, che “trovarono tante città italiane chiuse al loro ingresso”. La Pira li accolse e disse: “Ogni città racchiude in sé una vocazione e un mistero”, lanciando poi un’esortazione a custodire quella “casa comune”. Ancora oggi, dice l’abate, risuona l’invito ai cittadini “a stringerci la mano”.

E di questo stringerci la mano noi Chiesa dobbiamo essere ispiratori, testimoni, senza incoerenze, senza paura, senza ripiegamenti, in ascolto del Vangelo, perché la città è anche abitata da tante divisioni.

Una speranza meravigliosa

Immaginarsi come comunità è dunque sicuramente “una sfida” ma anche “una speranza meravigliosa”, assicura l’abate citando San Benedetto e concludendo con un meraviglioso inno all’amicizia”, contenuto in un’altra opera di Luzi “in contemplazione della maternità di Maria”: Alla vita.

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13 marzo 2019, 19:08