· Città del Vaticano ·

La peste a Napoli del 1943 ne «La pelle» di Curzio Malaparte

Una scorza d’arancia e un osso spolpato

La regista Liliana Cavani sul set del film (1980) tratto dal romanzo di Malaparte
13 maggio 2020

Crudo e spietato. Il romanzo La pelle (1949) di Curzio Malaparte non fa sconti e, con icastica evidenza — nutrita di un linguaggio dalle venature espressioniste e barocche — descrive la peste che infuriò a Napoli nell’ottobre del 1943, quando gli Alleati entrarono nella città come liberatori. Si tratta di una peste che corrompe non solo il corpo, ma anche l’anima, spingendo gli uomini vestiti di stracci a violare e a calpestare il rispetto di sé, e le donne «dalle smunte gote incrostate di belletto» a «vendersi», anche per «un solo dollaro».

E la peste è vista anche attraverso gli occhi dei bambini. Occhi che tradiscono un’espressione esterrefatta, occhi che sono testimoni di una realtà così raccapricciante e spiazzante da sembrare «solo un brutto sogno». Questi bambini, succubi di uno scenario dalle fattezze inquietanti, diventano «subito adulti»: la loro è una maturità solida, acquisita precocemente, saltando i naturali passaggi intermedi di crescita. Ma è una maturità che, necessariamente, comporta un costo altissimo.

Eppure rimane, caparbio e ostinato, un barlume di orgoglio e di fierezza nel popolo napoletano, pur vessato sia dalla storia che dalla natura. «Non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto» scrive l’autore, che a tale constatazione allega un’intrigante riflessione: «Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. Era fuori di dubbio che l’Italia, e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti sono capaci di perderla. Ma non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo vinto». Malaparte quindi sottolinea che nella loro antica saggezza e nella loro sincera modestia «i miei poveri napoletani» non si arrogavano il diritto di sentirsi un popolo vinto. «Era questa, senza dubbio una grava mancanza di tatto», rileva con ironia l’autore, il quale si chiede: «Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso a sentirsi vinti? O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo napoletano se non si sentiva né libero né vinto».

La peste, con il suo inclemente avanzare, fa tabula rasa — nella visione nichilista di Malaparte — di riferimenti e certezze, e di conseguenza l’uomo si sente sopraffatto da forza misteriose che lo fanno sentire, per dirla con Shakespeare, «fuor di sesto». Il suo cielo non ha più stelle fisse e nel volgere lo sguardo alla terra vede le strade di Napoli sudicie e fetide, lacerante espressione di un’umanità in progressivo, inarrestabile disfacimento. Niente altro rimane allora — sentenzia lo scrittore — se non la lotta, strenua e patetica insieme — di salvare la pelle: non l’anima, o l’onore, la libertà, la giustizia, dunque quei valori che si presumevano inviolabili e che si auspicava fossero eterni, ma la «schifosa pelle». Essa è «la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle».

Quella di Malaparte è una prosa violenta, rovente. «Quando gli uomini — scrive — lottano per vivere tutto, anche un barattolo vuoto, una cicca, una scorza d’arancia, una crosta di pane secco raccattata nelle immondizie, un osso spolpato, tutto ha un valore enorme decisivo».

Il romanzo fu, a suo tempo, un caso letterario. Tra i detrattori figura Raffaele La Capria, nativo di Napoli, che mal accolse «la feroce descrizione» di Napoli ostaggio della peste, come pure criticava il carattere ampolloso e magniloquente che informa l’intera produzione letteraria dello scrittore. «Le cose che racconta Curzio Malaparte sono inverosimili perché sembrano false — evidenzia La Capria —. Anche Kafka scrive cose inverosimili, anche Rabelais, anche Cervantes, ma non sembrano false». A tale riguardo fa da contraltare Liliana Cavani che nel 1981 firmò la regia del film tratto dall’omonimo romanzo. «Il libro — afferma — è un documento autentico di quella guerra. Anche se alcuni episodi sembrano più veri del vero, più crudeli, più macabri, più grotteschi, al punto da essere scambiati per invenzioni surreali, essi danno invece la vera realtà di quella guerra. Malaparte ha raccontato i fatti: abietti, crudeli, veri».

Dalla parte dei detrattori figura l’arguto aforista (oltre che giornalista e scrittore) Leo Longanesi che, nel biasimare Malaparte per la sua volontà di monopolizzare sempre la scena, così sentenziò: «È così egocentrico che se va ad un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». Di ben altro avviso Milan Kundera che a proposito de La pelle scrive: «Con le sue parole Malaparte fa male a sé stesso e agli altri. Chi parla è un uomo che soffre. Non uno scrittore impegnato. Un poeta». E la sofferenza riveste un ruolo nevralgico nel pensiero di Malaparte che nel congedare il dipinto, a fosche tinte, del paesaggio naturale e umano di Napoli sfregiato dalla peste, dà questa ultima pennellata: «Mangerei la terra e masticherei i sassi pur di aiutare un uomo, o un animale, a soffrire». Il riscatto da una condizione di miseria e di pena sembra, in superficie, che non sia contemplato. Ma in realtà, nei sotterranei cunicoli dell’animo umano, l’anelito al riscatto vibra e preme per affermarsi, nella matura consapevolezza che solo passando attraverso il fuoco della sofferenza è possibile forgiare un destino che, tra i lembi di una vita a brandelli, reclama l’affrancarsi da ogni forma di tirannia e di oppressione.

E se il critico letterario Emilio Cecchi, nello stroncare La pelle definiva Malaparte «un fabbricane di bolle terroristiche», un significativo elogio veniva tributato allo scrittore da Giovanni Spadolini che, in qualità di storico, dichiarava: «Nel gran pullulare di memoriali, di confessioni e di difese, utili o inutili, avare o generose, è sembrato quasi che i nostri scrittori avessero ritegno o paura ad ispirarsi ai fatti e ai fenomeni della vita collettiva degli anni della sconfitta e dell’invasione. Tanto più degno di rilievo appare quindi La pelle Curzio Malaparte, dove rivive un mondo, una società, un costume, magari deformati ed esasperati nei particolari, ma veri nell’essenziale».

di Gabriele Nicolò