· Città del Vaticano ·

The Beatles: Let It Be

Beatles recensione 5.jpg
08 maggio 2020

I cinquanta anni dalla pubblicazione di Let It Be (8 maggio 1970) più che una ricorrenza musicale segnano mezzo secolo di un’assenza ricorrente. Una mancanza che si ripresenta ogni qual volta si ascolti un disco dei Beatles, il gruppo che ha segnato in modo indelebile la storia della musica e della cultura giovanile (e non solo) della seconda metà del secolo scorso. Let It Be non è certo il miglior disco dei quattro giovanotti di Liverpool e in realtà, come è noto, non è nemmeno l’ultimo da loro registrato. L’ultima volta che i Beatles si trovarono per incidere un disco fu nel 1969 negli studi di Abbey Road dai quali uscì l’omonimo, splendido album. Let It Be è in fondo la testimonianza postuma di un progetto che avrebbe dovuto ricondurre i Beatles ad esibirsi nuovamente dal vivo dopo i lunghi anni di sperimentazione in sala di incisione. Un tentativo che in qualche modo voleva recuperare lo spirito originario del gruppo ma che alla fine si risolse in una serie quasi infiniti di litigi e di piccoli dispetti, come documentato dai filmati dell’epoca (Paul McCartney che canta i versi di Get Back, «torna da dove sei venuta», guardando Yoko Ono). Il progetto di un disco che riproponesse l’energia elementare ed elettrica dei primi Beatles venne poi definitivamente affossato dall’intervento di Phil Spector, al quale venne affidata la produzione finale dell’album. Spector era in quegli anni famoso per la sua “strategia” del Wall of Sound, che prevedeva appunto l’aggiunta di un muro di suoni alle registrazioni originali. Alcune gemme semi-acustiche di Let It Be, come The Long and Winding Road e Accross the Universe, vennero pubblicate sul vinile appesantite da voluminose parti orchestrali e da ingombranti inserti coristici, suscitando la rabbiosa reazione degli autori tenuti praticamente all’oscuro degli interventi di Spector. Ma, come detto, Let It Be non può essere annoverato tra i migliori dischi dei Beatles. Non che manchino piccoli capolavori come le già citate Get Back, The Long and Winding Road, e Across the Universe o come il celeberrimo brano che dà il titolo all’album e I’ve Got a Feeling. Quello che manca è il senso di coesione e di unitarietà che pervade gli altri album a partire da Rubber Soul in poi. Let It Be è in fondo un disco senza un progetto, un lavoro disarticolato, come disarticolata era divenuta l’esperienza dei Beatles. Il gruppo era ormai lacerato dalle tensioni interne con John Lennon sempre più orientato verso l’impegno politico, George Harrison sempre più immerso nella sua ricerca spirituale (e che ormai reclamava spazio per le sue composizioni) e Paul McCartney che più o meno intenzionalmente tendeva ad assumere la leadership del quartetto. Solo in pochi potevamo però immaginare quale vuoto avrebbe provocato lo scioglimento dei Beatles nel panorama musicale. Gli anni Settanta appena iniziati erano infatti segnati da una sovrabbondanza di rockstar e di band di successo. Inutile fare i nomi, anche perché di molti di loro si sono perse le tracce, mentre altri vivacchiano in una sterile riproposizione di se stessi. Il nome dei Beatles continua invece ad attraversare il tempo, così come la loro musica, raccolta, vale la pena di ricordarlo, in poco più di una decina dischi. Anche i puristi del rock e del folk, quelli che al tempo storcevano la bocca ascoltando le “canzonette” dei quattro di Liverpool, proclamando la loro fideistica preferenza per le chitarre urlanti o per nenie dei cantautori, si sono dovuti ricredere. Nel mondo della musica cosiddetta “leggera” non c’è un solo protagonista di rilievo che non riconosca ai Beatles una sorta di diritto di primogenitura. E anche oggi, per chi abbia la capacità di accostarsi con una certa umiltà o almeno senza troppi pregiudizi al loro universo sonoro, i Beatles possono davvero dischiudere uno scrigno di colori. Perché questa è stata la grande forza dei giovanotti britannici: portare un caleidoscopio di colori nel mondo della musica e nella vita dei giovani nati, come loro, durante la guerra e che volevano uscire dal tetro grigiore di quei terribili anni. I Beatles non erano né rock né folk, né blues né soul. I Beatles facevano propri tutti questi generi musicali per trasformarli e declinarli in modi radicalmente nuovi. I Beatles creavano la musica mentre la componevano e la eseguivano. Ampliavano costantemente l’orizzonte spingendosi un po’ piu avanti, proprio come un bambino che sempre genera una nuova dimensione del gioco che sta giocando. E proprio la capacità di guardare alla musica con stupore sempre rinnovato resta la loro peculiarità e la loro eredità. Nel mondo surreale creato dalle canzoni dei Beatles, nel loro sottomarino giallo la cui rotta ancora incrocia le nostre esistenze, non c’è spazio per le diseguaglianze o per la violenza. C’è spazio per la gioia e per il dolore. C’è spazio per i colori della vita. Una vita da guardare con un sorriso sempre nuovo, affettuoso e leggero. (giuseppe fiorentino)