· Città del Vaticano ·

Con la pandemia l’opera missionaria assume una rilevanza senza precedenti

Riscoprire il bisogno di vivere insieme l’esperienza della fede

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25 maggio 2020

Il futuro prossimo della missionarietà della Chiesa potrebbe essere racchiuso tutto in una visione apparentemente paradossale: sarà il virus che ha gettato in isolamento il mondo intero a imporre un’accelerazione alla necessità di diffondere il Vangelo nei luoghi più sperduti della Terra. Una contraddizione, se si pensa che la vita missionaria si basa sulla vicinanza, sul contatto, sull’incontro con l’altro. Dimensioni umane fondamentali, ora totalmente negate dalla pandemia. Eppure, la contraddizione si scioglie come neve al sole se si segue il pensiero di monsignor Giovanni Pietro Dal Toso. L’arcivescovo presidente delle Pontificie opere missionarie ha la convinzione che lo spirito missionario non cambierà, nella sostanza: «Sono sicuro che il virus ci obbligherà a essere ancora di più una “Chiesa in uscita” perché è nel nostro dna. Certamente, troveremo nuove modalità per farlo; non possiamo rimanere immobili nelle strutture».

Proprio nel momento in cui gli uomini stanno sperimentando dolore e smarrimento, il compito di diffondere la buona novella assume una rilevanza senza precedenti. Anche se le difficoltà si sono moltiplicate. Nei territori di missione, la chiusura delle chiese ha prodotto un contraccolpo non indifferente: «Il lockdown ha interrotto l’attività sacramentale e il rapporto pastorale con le persone. Tutto questo in alcune culture, caratterizzate da un’abitudine intensa alla socialità, è vissuto più drammaticamente». Senza contare l’aspetto economico che ha segnato un andamento negativo preoccupante, aggiunge monsignor Dal Toso: «I missionari vivono anche con le offerte dei fedeli raccolte durante le messe, che non ci sono state. Un grande problema per tutti gli organismi della Chiesa. Recentemente, con il benestare del Santo Padre, abbiamo aperto un fondo speciale per aiutarli. Stiamo ricevendo molte lettere di vescovi che fanno sapere di trovarsi senza risorse per sostenere i loro sacerdoti e religiosi».

Il 21 maggio scorso Papa Francesco avrebbe dovuto partecipare all’assemblea generale delle Pontificie opere missionarie nella quale annualmente si confrontano centoventi direttori nazionali per definire le prospettive della missionarietà della Chiesa. Il distanziamento sociale e le misure di sicurezza, per evitare il contagio, ne hanno imposto la cancellazione ma non hanno impedito al Pontefice di elaborare e inviare un profondo messaggio che lo stesso Dal Toso definisce un segno speciale di attenzione: «Il Santo Padre ha inserito la riflessione sul carisma delle Pontificie opere missionarie nella visione più grande della missione della Chiesa. Un mandato davvero importante, per noi». In sostanza Papa Francesco sottolinea come l’annuncio del Vangelo sia «un’altra cosa rispetto a ogni proselitismo politico e culturale, psicologico o religioso». E spiega che la missione è «un dono dello Spirito Santo» e non può affidarsi a «percorsi di addestramento “dedicati”» né essere affidata a quegli «apparati ecclesiastici» che «sembrano risucchiati dall’ossessione di promuovere sé stessi e le proprie iniziative». Quanto il Papa scrive nel suo messaggio — riflette monsignor Dal Toso — «vale per tutte le istituzioni ecclesiali. C’è un rapporto di reciproca fecondazione tra carisma e istituzione, una tensione che attraversa tutti gli organismi».

Per i prossimi anni a venire, Francesco raccomanda di evitare omologazioni ideologiche mantenendo in vita le due caratteristiche che hanno permesso alle Pontificie opere missionarie di diventare «una rete diffusa in tutti i continenti»: la preghiera e la carità. «La carità ha diversi risvolti», entra nel dettaglio l’arcivescovo: «Non si tratta solo di dare un’elemosina, anche se l’aspetto finanziario fa parte della missione della Chiesa. Esistono delle forme di carità meno visibili ma altrettanto importanti, come, per esempio, offrire le proprie sofferenze per gli altri».

Il domani che verrà ha ancora i contorni incerti, decisamente labili, anche perché non tutti i Paesi sono entrati nella “fase due”; molti aspettano ancora il picco del contagio rimanendo completamente bloccati. «Ad alcuni missionari, per precauzione, è stato chiesto di rientrare nei propri luoghi d’origine ma molti, soprattutto quelli che hanno deciso di esserlo a vita, si sono rifiutati, spiegando che volevano condividere il loro stesso destino con quello della popolazione locale», racconta don Giuseppe Pizzoli, direttore generale della Fondazione Missio, organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana. La narrazione di Pizzoli accende i riflettori su un aspetto peculiare che non verrà cancellato: la missionarietà ha bisogno di relazioni concrete. La fisicità non potrà essere sostituita dalla tecnologia, «anche perché nella maggioranza dei Paesi dove sono presenti i nostri missionari la tecnologia non è all’altezza. Non c’è uno sviluppo tecnologico equo e globalizzato. Cercheremo di attuare protocolli per evitare il contagio mantenendo i contatti personali. Solo così potremo continuare veramente le nostre attività pastorali».

Per il dopo pandemia c’è un forte strumento di evangelizzazione che don Pizzoli individua come strettamente necessario, quasi imprescindibile: «È la testimonianza della carità. La testimonianza della presenza, dell’affiancamento, del rimanere insieme alla gente per condividere le stesse fatiche, le stesse sofferenze». Nell’immediato si dovranno fare i conti con delle criticità che si spera siano solo momentanee. Ad esempio, «ai missionari non potremo più inviare volontari di sostegno; dovremo rinunciarci, almeno per ora».

Che il credente sia fatto per vivere in comunità e non in isolamento ne è convinto anche l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Ne consegue che l’annuncio del Vangelo potrà certamente avvantaggiarsi delle nuove opportunità mediatiche che il virus ha costretto a prendere in seria considerazione, ma non potrà relegare in soffitta lo scambio reale di idee, emozioni, sguardi. «Tutto questo appartiene all’uomo», ribadisce monsignor Fisichella, «l’uomo si avvicina istintivamente, l’uomo non è portato ad allontanarsi; lo fa solo quando non c’è un rapporto. L’uomo è fatto per la relazione». E questo vale soprattutto per la fede cristiana. Il presule lo sintetizza utilizzando una battuta: «La fede ha bisogno dei sensi: di vedere, di ascoltare, di toccare. Ha bisogno di sentire — per paradossale che sia — il profumo dell’incenso. Tutto ciò che appartiene alla vita umana appartiene anche alla dimensione della fede e dell’evangelizzazione».

Se qualcosa di buono questa drammatica situazione ci lascerà come eredità, argomenta l’arcivescovo Fisichella, lo si potrebbe individuare nel fatto che ha spinto le comunità cristiane a riscoprire il bisogno di vivere insieme l’esperienza della fede: «Mi ha colpito positivamente la richiesta, sempre più impellente, di poter partecipare alla santa messa. Ma l’evangelizzazione non si riduce al solo momento sacramentale. Per quanto riguarda l’evangelizzazione, la celebrazione dei sacramenti è solo uno dei punti essenziali. Poi ce ne sono altri due: l’incontro con le persone per annunciare la fede e quello della testimonianza viva della carità. Il virus ha dimostrato quanto per noi sia fondamentale vedersi, stare insieme».

Dunque, la pandemia non modificherà profondamente l’evangelizzazione della Chiesa? Monsignor Fisichella fa una pausa, poi risponde senza esitare: «L’evangelizzazione continua attraverso metodi e strumenti che sono segno di quanto il Vangelo — e quindi la Chiesa — è capace di entrare nella storia della gente. Ne sono sicuro: la pandemia non cambierà la dimensione di fede delle persone. Tantomeno la loro vita».

di Federico Piana