· Città del Vaticano ·

CRONACHE DAL NICHILISMO - X

Quel disegno nascosto dentro la nebbia

René Magritte «Les mémoires d’un saint» (1960)
19 maggio 2020

L’inconsistenza del reale in Montale e Virginia Woolf


La rubrica «Cronache dal nichilismo», che si conclude oggi, è iniziata il 15 gennaio scorso con l’articolo Barlumi nel buio. Sviluppi paradossali di una storia ancora aperta. L’autore è professore ordinario di Storia della filosofia nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Bari. I suoi principali interessi di ricerca riguardano il pensiero di Martin Heidegger, la filosofia di Immanuel Kant e l’opera metafisica di Francisco Suárez, vista come passaggio dall’eredità della scolastica del Medioevo all’ontologia dei “moderni”. Dal 2000 dirige, insieme a Pasquale Porro, la rivista internazionale «Quaestio»

Una delle caratteristiche più proprie degli esseri umani — per strano che possa sembrare — è la capacità di pensare il “nulla”. E non si tratta solo di un tema sofisticato per filosofi di professione, ma di un’esperienza che a tutti è capitato e capita di fare: la percezione del vuoto, dello smarrimento, dell’angoscia che ci assale in certi momenti, e di cui non riusciamo a dare altra spiegazione tranquillizzante se non che «non era niente», ma più al fondo era il nulla stesso che avanzava nella nostra coscienza. Eugenio Montale lo ha colto in un verso di conoscenza poetica acutissima, chiamandolo addirittura un «miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco» (da Forse un mattino andando in un’aria di vetro). Sono momenti brevi, a volte fulminei, altre volte nascosti nelle pieghe dell’esistere, che dal fondo del vivere accompagnano sordamente, come un “basso continuo”, i nostri pensieri e le nostre occupazioni quotidiane. Non sto parlando del disagio proprio di casi psichici particolari, ma di una condizione diffusa e condivisa, che non chiamerei affatto una patologia, ma al contrario uno dei segni più eloquenti — per quanto enigmatici — della nostra stessa “natura”. Il nulla è una chance del reale, che ci sta sempre davanti, o meglio si palesa dentro di noi e attorno a noi, richiamandoci chi siamo e perché siamo.

Nella storia del pensiero il nulla ha spesso rappresentato un “fuoco” problematico per capire — non certo per negare — l’essere. Pensiamo per esempio all’approccio “parmenideo” per cui il nulla va pensato solo come non-essere o come il divenire, passaggio delle cose dall’essere al non essere o viceversa: quindi come l’opposto o il contraddittorio rispetto a ciò che “è”. Quella fede nel divenire che Emanuele Severino ha chiamato la follia dell’Occidente nichilistico.

Accanto a questa posizione si sono affermate subito, da Platone in poi, altre concezioni per cui il nulla non è mai semplicemente l’opposto dell’essere, ma è implicato strettamente con quest’ultimo, proprio per spiegare il divenire e la molteplicità delle cose nel tempo. Ma è stata poi soprattutto la concezione ebraico-cristiana della creazione dal nulla (ex nihilo) a dare una prospettiva nuova a questo concetto. È uno sguardo nuovo per cui le cose finite sono concepite come un dono gratuito, perché non era necessario che fossero. Come lo stupore che risuona nella celebre domanda metafisica di Leibniz: «Perché vi è qualcosa piuttosto che nulla?» (dai Principi della natura e della grazia).

Il nulla dunque non significa semplicemente il non-essere-più di una cosa che prima esisteva, o il non-esser-ancora di ciò che esisterà, ma costituisce una dimensione propria di tutto ciò che è o che può essere, la sua “provenienza”, la traccia del suo venire all’essere, del suo accadere. Il nulla non è perciò un concetto vuoto, a indicare ciò che resta quando tutto è annientato o non c’è più niente, ma al contrario è un concetto pieno di essere, che permette di cogliere nelle cose la traccia della loro origine, perché tutto quanto — compreso me stesso — non solo è stato strappato al nulla all’inizio, ma sul nulla si afferma in ogni istante del suo esistere.

Peraltro il nulla non è solo un concetto rivolto al passato, ma per così dire anche al futuro, come ha compreso molta filosofia del Novecento: esso sta a dire che gli esseri umani sono esseri “aperti”, che non si possono compiere mai, perché sono capaci di libertà, o condannati ad essa. Perciò siamo esseri trascendenti, sempre aperti alla possibilità, a ciò che ancora non è o che potrebbe essere diversamente dalla necessità della natura. Il nulla qui significa dunque “trascendenza” e libertà.

Bisogna allora in qualche modo riappropriarci di questo nulla, attraversarlo, lasciarcene inquietare e provocare, senza aver fretta di liquidarlo e “regalarlo” così al nichilismo. Anzi mi verrebbe da dire che proprio andando al fondo del richiamo del nulla, capendo quello che ci chiede, possiamo contribuire a oltrepassare il nichilismo contemporaneo. Ed è ancora una volta una grande “nichilista” a capire la posta in gioco. Parlo di Virginia Woolf e in particolare di un suo scritto autobiografico risalente al 1939, ma pubblicato postumo col titolo Momenti di essere, in cui possiamo avvertire una vibrazione inedita e “positiva” del problema del nulla.

Le nostre giornate, scrive Woolf, sono fatte di «momenti di essere» i quali tuttavia «sono racchiusi (embedded) in momenti di non-essere molto più numerosi». La realtà è un «bene» (goodness) che però è «avvolto in una sorta di ovatta senza contorni»: potremmo chiamarla l’ovatta dell’insensatezza, della mancanza di un significato vivente e vissuto per sé e per il mondo. E così «la gran parte di ogni giornata è vissuta senza coscienza». Ma Woolf incalza: è solo grazie ad una «scossa violenta e improvvisa», a «momenti eccezionali» in cui qualcosa «accadeva con tale violenza che non l’ho più scordata», che in quell’ovatta si apre uno squarcio improvviso «per una ragione che non conosco», e le cose si fanno trasparenti, mostrandosi finalmente come «reali».

Questi momenti possono essere segnati dalla «disperazione» o dalla «soddisfazione»: nel primo caso vince un senso di impotenza assoluta; nel secondo caso si avverte che quel che succede può essere «spiegato» scoprendolo come una «rivelazione»: il segno ma anche il pegno (token) «di una cosa reale dietro l’apparenza». Di qui nasce «una filosofia o comunque un’idea che ho sempre avuto: che dietro l’ovatta si celi un disegno (a pattern); che noi — cioè tutti gli esseri umani — rientriamo nel disegno, che il mondo intero è un’opera d’arte; che noi siamo parte dell’opera d’arte». In quei momenti, conclude Woolf, «la poesia si avvera» e «la penna trova la traccia». Anzi «io continuo a credere che sia questa capacità di ricevere delle scosse a fare di me una scrittrice».

Cosa significa che la poesia diventa vera, reale, se non che il significato si incarna, si incorpora, si rende riconoscibile dalla nostra ragione e desiderabile dalla nostra affezione? I momenti di essere sono davvero tali — tutti lo sperimentiamo — perché ogni volta non sono scontati o automatici, prevedibili e programmabili. Sono, in definitiva, “strappati” al nulla, e noi possiamo viverli nel cerchio ovattato dei nostri meccanismi, oppure avvertire il miracolo della loro presenza.

Di questo nulla squarciato dalla presenza delle cose, degli eventi e delle persone, il nichilismo non sa paradossalmente nulla. Esso si occupa esclusivamente di gestire, misurare e calcolare “tecnicamente” la realtà, privandosi e privandola dell’assillo di un significato ultimo di sé e del mondo. Il nulla — come concetto ma ancor più come esperienza irriducibilmente umana — può essere allora visto come il punto su cui far leva per ribaltare la grande pretesa del nichilismo. Il nulla è forse il più grande amico dell’essere.

di Costantino Esposito