· Città del Vaticano ·

L’insegnamento di Papa Wojtyła

Nella poesia le sorgenti della teologia

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19 maggio 2020

Dentro di me il tuo nome. La teologia di Giovanni Paolo II (Edizioni San Paolo, Milano, 2020, pagine 336, euro 25) è il volume — scritto dall’arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione — che propone una sintesi dell’insegnamento di Papa Wojtyła essenzialmente a partire dalle 14 encicliche scritte in quasi 27 anni di Pontificato. Del libro, che inaugura la nuova collana dell’editrice «Sub lumine fidei», pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione

«Fermati / Io porto dentro di me il tuo nome / Il nome-segno dell’Alleanza / Che il Verbo Primordiale ha stretto con te, / Ricorda questo luogo, quando andrai via da qui, / luogo che rimarrà in attesa del suo proprio giorno».

Non è improprio iniziare una presentazione del pensiero teologico di Giovanni Paolo II citando uno dei suoi ultimi scritti: Trittico romano. Per comprendere a fondo il suo modo di pensare e di esprimersi si deve necessariamente far riferimento al suo essere, in fondo, un poeta. Il suo animo era di quelli che sanno non solo descrivere e ammirare la bellezza, ma soprattutto contemplarla. Il Trittico romano, come altre opere di natura poetica o teatrale, sono una chiave ermeneutica indispensabile per approdare a un’interpretazione coerente degli scritti di Giovanni Paolo II, anche di quelli che paradossalmente sono messi al riparo per la natura prettamente teologica che possiedono. In ognuna delle encicliche — come ci sforzeremo di mostrare — emerge qua e là un tratto di poesia che, lontano dal fraintendere o equivocare, permette invece di penetrare maggiormente in profondità nei contenuti espressi. D’altronde, Karol Wojtyła sulla scena letteraria si caratterizza primariamente come poeta, poi diventa filosofo per sfociare, infine, nella teologia. In ognuno di questi momenti non è mai venuto meno nella sua consapevolezza di uomo di fede che indaga il mistero a cui si abbandona. La sua poesia è colma di teologia e il suo esprimersi teologico è spesso caratterizzato dal tono poetico. Questo percorso non può portare ad esprimere giudizi affrettati sulla sua epistemologia nel momento in cui si devono valutare le differenti forme di scritti che contengono un’unità di pensiero forte e articolata.

Certamente, la sua visione teologica in parte risente della formazione filosofica. Questa in maniera predominante è condizionata dagli studi dedicati alla filosofia di Max Scheler. La tesi dottorale gli spalanca orizzonti di riflessione che rimarranno impressi soprattutto nelle sue encicliche più a carattere etico e filosofico. La visione di Max Scheler, d’altronde, è ben conosciuta e riveste un’attualità non secondaria. Il suo pensiero è sostenuto dal tentativo di tenere unite metafisica e religione, portandole a sfociare nel riconoscimento comune dell’imprescindibilità di fare riferimento all’eterno nel tempo, e alla presenza di Dio nell’uomo. Il fenomeno religioso è per Scheler un dato universale, attraversa tempi e spazi; si inserisce nelle culture, perché l’uomo nella sua intima costituzione è rivolto a Dio e aperto alla trascendenza. Nella misura in cui l’uomo riesce a incontrare veramente Dio, allora è possibile la sua crescita umana realizzata sull’amore personale. Al contrario, quando l’uomo si rinchiude in se stesso, rifiutando il rapporto con la trascendenza, tutto diventa pura idolatria e conduce inevitabilmente a condizioni di violenza.

«Fermati». L’imperativo così categorico posto in cima al Trittico non dice altro che l’esigenza del silenzio dinanzi al mistero della fede che vede in Abramo un padre insostituibile. Fermarsi per restare in silenzio e contemplare la bellezza del Creatore. È qui che si scopre di essere da lui conosciuti «fin dalla creazione del mondo», e nello stesso tempo diventa chiara la chiamata per partecipare alla sua vita divina. Il richiamo dei versi al «luogo» che rimarrà in attesa, va al di là dell’immediata immagine di Abramo che scende dal monte dopo essere stato fermato per non immolare il figlio Isacco, e rinvia a quel «posto» che Gesù ha promesso di preparare per quanti credono alla sua parola (cfr. Gv 14, 2-3). Si lascia un «luogo», per l’inevitabilità della morte che sopraggiunge; eppure quel «luogo» va oltre il limite, perché permane come segno concreto di una promessa che non viene meno e solo attende di essere mantenuta. Come si nota, la poesia contiene in sé tratti di profonda teologia che mentre da una parte invita a entrare sempre più nella profondità del mistero, dall’altra evidenzia il valore esistenziale di dare senso alla vita.

Sempre nel Trittico romano, d’altronde, è facile cogliere questa unità. Non sarebbe possibile, infatti, penetrare nella bellezza di questi versi se non si ponesse a fondamento la vocazione del poeta a contemplare il mistero della propria chiamata e della stessa fede. Il richiamo al tema dello «stupore» e della «meraviglia» nel racconto della creazione non fanno che confermare questa prospettiva: «Il varco che un uomo trapassa attraverso l’uomo / è dello stupore la soglia, / (una volta, proprio questo portento / Fu nominato “Adamo”) / Ed era solo, col suo stupore / Tra le creature senza meraviglia / — per le quali esistere e trascorrere era sufficiente — / L’uomo, con loro, scorreva / Sull’onda dello stupore! / Meravigliandosi, sempre emergeva / Dal maroso che lo trasportava, / come per dire a tutto il mondo: / “Fermati! — in me hai un porto, / in me c’è quel luogo d’incontro / col Primordiale Verbo” — / “Fermati, questo trapasso ha un senso, / ha un senso... ha un senso... ha un senso!”».

di Rino Fisichella