· Città del Vaticano ·

A colloquio con padre Simone Raponi a 425 anni dalla morte di san Filippo Neri

L’apostolo di Roma libero e sorridente

«San Filippo Neri» (Archivio storico della congregazione dell’Oratorio di Brescia)
25 maggio 2020

Il centro storico di Roma, svuotato dalle misure restrittive per la pandemia, restituisce in questi giorni scorci che guidano l’immaginazione in improbabili viaggi nel tempo, anche nella città di cinquecento anni fa. Tra i vicoli di Trastevere e Campo de’ Fiori potrebbe capitare così di intravedere un eremita urbano incappucciato che racconta barzellette. «Signore, non ti fidare di me! Oggi potrei tradirti», pregava Filippo Neri, il santo della gioia, fondatore del primo Oratorio, spentosi nell’Urbe il 26 maggio di 425 anni fa. Parliamo di un uomo di Chiesa che incarna a perfezione la corrispondenza fra santità e allergia alla faccia funebre, predicata da Papa Francesco. Per figurarcelo meglio oggi, per quelle strade che erano gli spazi privilegiati della sua evangelizzazione, chiediamo aiuto a padre Simone Raponi, sacerdote della congregazione dell’Oratorio di Roma e prefetto dell’Archivio della stessa congregazione.

«Ieri come oggi, specie in un tempo di paura e di incertezza come il nostro, immagino san Filippo, per le strade di Roma, accostarsi al quotidiano delle persone, pur con tutte le precauzioni, innalzandone lo sguardo. Lo penso aiutare a scorgere le tracce di Dio laddove sembra assente; a seguire i movimenti dello Spirito quando la vita sembra ferma; a mantenere la speranza quando non sembra esserci via di uscita. Non senza la sua singolarissima giovialità».

Sarebbe stato capace di scherzare anche in un momento come questo?

Penso di sì. Tuttavia, la gioia di san Filippo non deve essere confusa con l’esaltazione psicologica o l’atteggiamento carnevalesco, che possono offendere o risultare inopportuni. Si radica piuttosto sulla certezza dell’amore di Dio rivelato in Gesù, che nessun evento, per quanto triste, può distruggere. Ecco perché la gioia filippiana non anestetizza, ma penetra e trasfigura tutta la realtà, anche il dolore, ricordando, soprattutto oggi, il valore permanente del Discorso della Montagna. E qui anche i sofferenti sono dichiarati “beati”.

Papa Francesco ha ribadito più volte che il senso dell’umorismo è l’atteggiamento umano più vicino alla grazia di Dio. San Filippo sarebbe stato d’accordo?

Lui sosteneva che «è più facile guidare per il cammino dello spirito le persone allegre che le malinconiche». Un naturale temperamento sereno può aiutare, ma la vera letizia è molto di più. È comunione con Dio, dono dello Spirito Santo, capace di infondere pace al cuore e di avvicinare l’uomo alla vita divina. Al contrario, secondo san Filippo: «La tristezza di solito ha origine nella superbia». Chi mette seriosamente al centro se stesso si autocondanna all’angoscia ogni volta che si infrangono le proprie ambizioni e le proprie affannate apparenze, e così finisce per allontanarsi da Dio.

Nel pensiero di san Filippo Neri il buonumore è anche sinonimo di creatività e libertà?

Nella sua vita, l’originalità del tratto umoristico si esprimeva in modo creativo e bizzarro. Non era insolito vederlo con la barba tagliata a metà, vestito con abiti alla rovescia o vecchi, in occasioni formali saltellare davanti a prelati e cardinali, indossare scarpe bianche sotto la talare nera, eccetera. Attirandosi la derisione, san Filippo scelse la via della “mortificazione ironica” per disorientare sulla propria fama di santità e per assolvere all’imperativo supremo dell’umiltà. Tutto questo poi altro non era che un modo per dichiarare la sua assoluta libertà spirituale rispetto alla tragicomica vanagloria del mondo.

Grande promotore della controriforma tridentina eppure nemico di ogni rigidità... Non è una contraddizione?

In san Filippo l’assenza di rigidità è una personale interpretazione di questo complesso rinnovamento religioso della vita della Chiesa. Sposava fedelmente le verità del concilio ma era estraneo a qualsiasi austera traduzione rigoristica. Il suo apostolato, improntato a un sano umanesimo cristiano, non conosceva durezze, ma solo delicatezza, moderazione e fiducia nella natura umana. Il terreno della rigenerazione era sempre quello del cuore, toccato dalla Grazia. E con la soavità del metodo — qualcuno scrisse — «cambiò la faccia della Città eterna», meritando il titolo, insieme a san Pietro e a san Paolo, di “apostolo di Roma”.

di Fabio Colagrande