· Città del Vaticano ·

Il sequestro, il dolore e un’umanità dimenticata

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11 maggio 2020

Silvia Romano è felicemente rientrata in Italia. Difficile solo immaginare quello che ha sofferto. Non è certamente stata in vacanza alle Maldive.

Eppure l’opinione pubblica italiana è divisa. Da una parte c’è chi ne apprezza il coraggio e la generosità che hanno animato la sua scelta di partire come volontaria. Dall’altra vi sono coloro che si scagliano pesantemente contro di lei con invettive d’ogni genere. Polemizzare sulla sua conversione all’Islam o sul pagamento di un riscatto per il rilascio sono considerazioni fuori luogo, a dir poco inopportune.

Anzitutto dobbiamo prendere atto che la sua vita è salva dopo un anno e mezzo di dura prigionia. Ed è corretto manifestare il nostro ringraziamento alle autorità governative italiane che si sono prodigate affinché questo risultato fosse conseguito. Nessuno può dire, a parte il suo sorriso mentre abbracciava i genitori e la sorella, quali siano le reali condizioni di Silvia, oltre che fisicamente, da un punto di vista psicologico e spirituale. È troppo presto per sapere ciò che è realmente accaduto dal 20 novembre 2018, giorno del suo rapimento in Kenya, a sabato scorso, quando è stato dato l’annuncio della sua liberazione in Somalia. E poi, lungi dal voler essere retorici, in una circostanza come questa, non dimentichiamo mai che esiste, per ogni persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, il foro interno, quello dell’anima, che nessuno può violare.

Chi scrive conosce bene la ferocia di Al Shabaab, una delle più criminali formazioni jihadiste africane assieme a Boko Haram in Nigeria. E cosa dire della Somalia dove dalla caduta del regime di Siad Barre, nel lontano gennaio del 1991, la popolazione civile è preda di violenze inaudite? Basti pensare che il governo di Mogadiscio, internazionalmente riconosciuto, riesce a controllare a fatica pochi scampoli di territorio. Stiamo parlando di realtà anni luce distanti dal nostro immaginario. Oggi per noi, qui in Italia, la preoccupazione è il coronavirus e soprattutto la ripresa del “Sistema Paese”, principalmente dal punto di vista delle attività produttive. Molti di noi non considerano il fatto che se da una parte è logico pensare come il lockdown in Italia abbia innescato un acceso dibattito tra i fautori della salute e quelli della produzione, nel Sud del mondo questa stessa dialettica ha assunto altri significati.

Per i poveri, quelli ad esempio che sopravvivono con meno di due dollari al giorno in Somalia, la parola “economia” significa “mezzi di sussistenza”, mentre per i paesi del cosiddetto Primo mondo rimanda ai “mercati azionari” e in termini generali al business. Queste due prospettive asimmetriche vengono confermate anche dalla diversa percezione della sofferenza, a secondo della latitudine in cui un osservatore si trova. Come scrive l’attivista srilankese Mohan Munasinghe, presidente e fondatore del Munasinghe Institute for Development (Mind), il numero delle vittime causate dal covid-19 non è minimamente paragonabile «agli almeno 7 milioni di persone che muoiono di fame ogni anno in tutto il mondo (oltre la metà dei quali sono bambini nei paesi più poveri) e agli altri 8-9 milioni che patiscono la stessa sorte a causa dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua».

Cosa c’entra tutto questo ragionamento con la nostra Silvia Romano? La risposta è semplice. Anni fa, nell’agosto del 2002, il sottoscritto, assieme a due suoi confratelli, visse l’esperienza del sequestro in Africa, precisamente nel Nord Uganda. Un’esperienza indimenticabile e traumatica, anche se in un lasso di tempo limitatissimo in confronto al sequestro di Silvia. Devo confessare che, dopo la liberazione, provai un grande disagio quando venni investito dalle domande dei giornalisti. La curiosità era tutta incentrata su noi tre e soprattutto sul racconto di quanto avvenuto. A pochi cronisti interessò sapere quale fosse la reale condizione di tanta umanità dolente che allora, nel Nord Uganda, era ostaggio della ferocia dei ribelli dell’Lra.

Silvia non dimenticherà facilmente questa brutta esperienza, non foss’altro perché è stata a diretto contatto con una società relegata nei bassifondi della Storia, un popolo, quello somalo, da decenni sul Calvario.

di Giulio Albanese