· Città del Vaticano ·

Dedicato alla comunicazione e alle relazioni umane il nuovo volume della collana «Scambio dei doni»

Con lo sguardo di Gesù

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25 maggio 2020

Un reciproco scambio di doni


Il trattino a metà parola («com-unico») non è un errore di stampa ma una sottolineatura voluta. Diversi e uniti. Com-unico quindi sono (Città del Vaticano, LEV, 2020, pagine 206, euro 15) è un nuovo volume edito dalla Libreria editrice vaticana – Dicastero per la comunicazione della Santa Sede che ha per tema occasioni di dialogo “in azione”, nel suo concreto declinarsi. Il testo fa parte di «Scambio dei doni», la collana “ecumenica” dell’editrice che raccoglie i testi e i discorsi del Pontefice accompagnati da un suo scritto inedito e da un’introduzione solitamente firmata da un rappresentante dei fratelli e delle sorelle delle Chiese e Comunità ecclesiali separate. Della stessa collana fanno parte il volume Nostra Madre Terra. Una lettura cristiana della sfida dell'ambiente (Città del Vaticano, LEV, 2019, pagine 144, euro 15) che raccoglie i discorsi del Papa sulla cura del creato ed è introdotto dalla prefazione del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, e La preghiera. Il respiro della vita nuova con la prefazione del Patriarca di Mosca Kirill (Città del Vaticano, LEV, 2019, pagine 208, euro 15). Il filo rosso che lega i libri l’uno all’altro è l’ecumenismo dei fedeli, quell’ecumenismo pratico che si manifesta nelle iniziative comuni dei cristiani per la salvaguardia del Creato e dell’ecologia interiore di ciascun essere umano, che della Creazione fa parte. Diversi e uniti contiene la prefazione di Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury, primate di tutta l’Inghilterra e leader mondiale della Comunione Anglicana e le riflessioni del Santo Padre sulle relazioni umane: relazioni tra persone create ad immagine di Dio. «Le relazioni umane più belle e più fruttuose — sottolinea Justin Welby — sono quelle che sono fondate sull’amore che Dio ha per noi». Con lo sguardo di Gesù è il testo inedito di Papa Francesco, aperto dalla storia del “giovane ricco” «che chiede a Gesù cosa deve fare per ereditare la vita eterna». Senza lo “sguardo d’amore” di Dio «la comunicazione umana — scrive Papa Francesco — il dialogo tra le persone, può facilmente diventare soltanto un duello dialettico». Diversi e uniti. Com-unico quindi sono sarà presto disponibile in varie lingue. I diritti sono stati venduti agli editori Romana Editorial (lingua spagnola), Catholic Truth Society CTS (lingua inglese per Inghilterra, Irlanda e Australia), Our Sunday Visitor (lingua inglese per gli Stati Uniti), Paoline Portogallo (per la lingua portoghese), Editura Arcidiocesi di Bucarest (per la lingua romena), Editions Salvator (per la lingua francese) e Kršćanska sadašnjost (per la lingua croata).

Saper ascoltare per poi parlare
di Justin Welby

 

Il testo inedito di Papa Francesco


Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (Mc 10, 17-27).

Tutti e tre i vangeli sinottici riportano l’episodio del “giovane ricco”, di quell’uomo (in realtà l’età esatta non si deduce dalla lettura dei testi) che chiede a Gesù cosa deve fare per ereditare la vita eterna. C’è un dettaglio in questo breve dialogo che riporta solo il Vangelo di Marco, nel mezzo della conversazione, tra una domanda e una risposta, l’evangelista scrive che «Gesù, fissatolo, l’amò» (Mc 10, 21). Un dettaglio che a me appare decisivo. Un particolare che dice molto dello stile di Gesù, di quello stile che è “essenza”, “sostanza” e ci indica una via per vivere da veri uomini nel mondo. Essere uomini vuol dire comunicare, entrare in contatto con il mondo e con gli altri e costruire relazioni.

Mentre i due parlano, Gesù non sta soltanto pensando a quello che vuole dire al suo interlocutore, ma sta pensando a lui, a chi ha davanti, anzi, prima ancora di pensare, lo guarda, lo fissa, con amore. Questo stile Gesù lo ha mostrato non solo con il giovane ricco ma con tutte le persone che ha incontrato. In fondo il Vangelo è (anche) il racconto dei tanti incontri di Gesù lungo il suo cammino per le vie della Palestina. In alcuni casi è facile immaginare che quel “fissatolo, lo amò” sia accaduto, pur se non è detto esplicitamente, anche negli altri incontri di Gesù; pensiamo alla chiamata di Matteo (fissato con uno sguardo di elezione e insieme di misericordia), al dialogo notturno con Nicodemo, o a quello presso il pozzo di Giacobbe con la samaritana, e forse anche quelli più rapidi con la donna cananea e con Zaccheo. Di sicuro quello sguardo è lo stesso con cui Gesù offre la sua guancia a Giuda chiamandolo “amico”, lo stesso sguardo con cui si volge verso Pietro mentre il gallo canta, e, anche se facciamo fatica a comprenderlo, è lo stesso sguardo con cui osserva silenzioso il misero spettacolo del re Erode che aspetta da lui qualche gesto miracoloso prima di rimandarlo deluso da Pilato. Anche nel dialogo con il procuratore romano Gesù lo avrà fissato con amore.

La fede cristiana si fonda su questa semplice affermazione: Gesù è di natura divina e Dio è amore. Questo fondamento determina una serie di conseguenze e cambia tutto il modo di stare al mondo del cristiano. Senza quello sguardo d’amore la comunicazione umana, il dialogo tra le persone può facilmente diventare soltanto un duello dialettico, quello sguardo rivela invece che c’è in ballo un’altra questione, vertiginosa, che non ha al centro il merito della discussione ma molto di più, il senso stesso dell’esistenza, mia e del mio interlocutore.

Interessante quel termine che l’evangelista usa: “fissatolo”, un verbo che sottintende un atteggiamento contemplativo che a sua volta richiede una dilatazione temporale, un fermare il momento quasi per gustarne ogni attimo. Soprattutto nelle società occidentali il verbo “fissare”, l’atteggiamento contemplativo sembra non avere più cittadinanza, essere sparito dal paesaggio quotidiano, nella vita di tutti i giorni. Nessuno fissa più nessun altro, anzi se questo accade scatta automatico un senso di disagio e una reazione come di fronte a un pericolo. Si è perso così qualcosa, nessuno guarda negli occhi l’altro, non si “sta” uno di fronte all’altro, fermando per un attimo la corsa frenetica del tempo a cui siamo sottoposti. Pensando a questa condizione ho espresso, tornando dal viaggio in Asia lo scorso novembre, il mio auspicio che l’Occidente recuperasse dall’Oriente il senso della “poesia”, intendendo con questa bella parola proprio il senso della contemplazione, del fermarsi e donarsi un momento di apertura verso se stessi e gli altri nel segno della gratuità, del puro disinteresse. Senza quel “di più” della poesia, senza questo dono, senza la gratuità, non può nascere un vero incontro, né una comunicazione propriamente umana. Gli uomini “comunicano” non solo perché si scambiano informazioni, ma perché provano a costruire una comunione. Le parole devono essere quindi come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita.

Questo avvicinamento ha come condizione di partenza quella di essere disposti ad ascoltare con pazienza le posizioni dell’altro perché fissare, guardare presuppone accettare di essere fissati, guardati: nella comunicazione ci si offre uno all’altro.

Su questo tema abbiamo molto da apprendere dalla lezione del santo cardinale John Henry Newman. La sua riflessione si è concentrata particolarmente sulla dimensione dell’immaginazione e della “disposizione” del cuore che svolge un ruolo più importante rispetto a quello della ragione, affinché un uomo possa veramente essere toccato dall’esperienza della fede. Newman si rendeva conto che le persone spesso discutevano e finivano per litigare non per questioni attinenti al merito della discussione, ma per una predisposizione di maggiore o minore apertura nei confronti dell’interlocutore. La sua non era una riflessione astratta, egli partiva dall’esperienza del dialogo costante con il fratello minore, Charles, che era diventato ateo. «Non sei nello stato d’animo di chi è disposto ad ascoltare argomenti, quali che siano», scrive al fratello che secondo lui finisce per cadere nell’incredulità per una «inadeguatezza del cuore, non dell’intelletto», perché quando si tratta di argomenti religiosi gli uomini tendono a vedere tutto «attraverso le lenti di abitudini precedenti». Quello che valeva per il fratello Charles vale oggi per la società contemporanea in cui è difficile trovare un ateismo frutto di uno stato d’animo di aperta ostilità al Vangelo, ma piuttosto è facile imbattersi in un’indifferenza che nasce da una serie di pregiudizi e di un’immaginazione che rimane al livello della superficialità e non si lascia scalfire dalla forza dirompente dei simboli e dei messaggi del Cristianesimo. Se la disposizione personale è fondamentale, allora lo sforzo necessario in ogni occasione di comunicazione è quello di viverla come un incontro vero e non superficiale che apra a un dialogo fecondo, generativo che metta in moto un dinamismo capace di scompigliare e trasformare le “pre-disposizioni”, in altre parole che apra alla conversione.

Ci vuole coraggio. Come ho avuto modo di dire il 4 febbraio 2019 nell’incontro interreligioso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi, un dialogo effettivo «presuppone la propria identità, cui non bisogna abdicare per compiacere l’altro. Ma al tempo stesso domanda il coraggio dell’alterità che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua libertà […] senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi. […] Il coraggio dell’alterità è l’anima del dialogo, che si basa sulla sincerità delle intenzioni […]. In tutto ciò la preghiera è imprescindibile: essa, mentre incarna il coraggio dell’alterità nei riguardi di Dio, nella sincerità dell’intenzione, purifica il cuore dal ripiegamento su di sé».

Identità e alterità esistono insieme e possono convivere solo in un contesto di coraggio, libertà e di preghiera. L’alterità è vitale per l’identità. Mai senza l’altro, il titolo di un bel saggio di Michael De Certeau è un bel “motto” che può contraddistinguere l’esistenza umana che trova nella relazione la sua pienezza e il suo significato ultimo. Un cuore ripiegato su di sé si ammala e si “incrosta” di scorie che ne impediscono il palpito sano e vivificante. La relazione ha un suo “respiro” che ha bisogno di un ritmo e di ossigeno pulito, condizioni assicurate solo dalla presenza dell’altro. La mia identità è un punto di partenza, ma senza l’alterità cade a vuoto, si appassisce e rischia di morire. Senza il riconoscimento dell’alterità muore non solo l’altro ma anche io stesso. L’aspetto importante però è che questo riconoscimento per essere “pieno”, deve aprirsi al riconoscimento della libertà dell’altro. Questo punto è cruciale. Qui ci muoviamo ancora una volta nel cuore del cristianesimo. Viene in soccorso nuovamente il testo del Vangelo da cui siamo partiti, questa volta con il secondo termine racchiuso in quella frase di tre parole: «Fissatolo, lo amò». Gesù non guarda l’altro come uno “spettacolo”, ma come una persona, come un dono, come un essere che Dio ha voluto creare liberamente (per amore) e mettere sulla sua strada. Nel suo sguardo d’amore vi è già inserita la dimensione della libertà. Si ama solo nella libertà e solo l’amore vero rende e lascia liberi gli altri. È illuminante da questo punto di vista il modo in cui termina l’episodio raccontato da Marco; potremmo dire che il finale è amaro, che “finisce male”. L’interlocutore di Gesù rimane deluso, sconcertato e se ne va “dolente”. L’evangelista spiega anche il motivo di questo atteggiamento («perché aveva molti beni»), che si potrebbe tradurre anche così: «Perché non era una persona libera». Come se i beni, impedissero il bene: una vita politeista soffoca la possibilità di una vita piena, “eterna” come chiede il giovane che non a caso elenca tutti i comandamenti della legge che lui rispetta senza che questo gli abbia donato quella felicità di cui il suo cuore è assetato. La libertà è il nodo di questa vicenda esistenziale, quei molti beni non permettono l’accesso a una vera libertà. È proprio la libertà il “condimento” essenziale per rendere pienamente umana l’esistenza delle persone sulla terra, e quindi anche ogni atto comunicativo. Senza la libertà non c’è verità, ogni relazione diventa finzione, ipocrisia, scivola nella superficialità o, peggio, nella strumentalizzazione. Mi avvicino all’altro per “usarlo” e così finisco per togliergli la libertà. Invece è proprio di una relazione basata sull’amore a garantire la libertà propria e altrui, anche se questo significa esporsi al rischio. Amare vuol dire essere aperti al rischio. Gesù nel momento in cui fissa il giovane davanti a lui, non lo “squadra” per trovare i suoi punti deboli, ma lo contempla come fosse appena uscito dalle mani creatrici di Dio Padre ed è felice della sua esistenza, lo ama appunto e lo chiama a superare tutte le prigioni e le ferite passate per un avvenire di pienezza, rispondendo così alla sua domanda sulla possibilità di una vita eterna. In questo gesto Gesù si espone al rischio, la sua è una scommessa sull’altro, sull’uomo e come tale la possibilità del fallimento è reale. Il finale sembra chiudersi infatti in modo fallimentare, la parola di Gesù, Parola di Dio, non ha sortito alcun effetto, la comunicazione tra i due, vista come schermaglia dialettica, non ha prodotto alcun frutto, hanno “perso” tutti e due; è il “dramma della libertà” per dirla con Dostoevskij. Ma non è la fine, lo si intuisce dalle parole successive di Gesù: su questo dramma può sopravvenire il gesto della preghiera, dell’apertura all’alterità di Dio per il quale «nulla è impossibile». Ed è interessante che Gesù faccia questa solenne affermazione, ancora una volta, “fissando lo sguardo su di loro”.

Possa lo sguardo di Dio posarsi sempre sulla nostra vita e noi, a nostra volta, entrando in relazione e comunicando con gli altri uomini, avere lo stesso sguardo di Gesù che ci fissa con gli occhi dell’amore gratuito e generoso fino alla totale donazione di sé.

Franciscus