· Città del Vaticano ·

Per milioni di persone che in Asia vivono nelle baraccopoli la pandemia significa morire di fame

Sprofondati nell’abisso

Gobardhan Ash, «Bengal famine» (1943)
09 aprile 2020

Nella baraccopoli di Tondo a Manila, uno dei posti più desolati della capitale filippina, i residenti vivono il loro Venerdì santo con un senso di rassegnazione e di abbandono. Il blocco totale imposto dal governo per cercare di contenere il covid-19 per loro è un vero disastro. Il quartiere vicino al porto ospita oltre 600.000 persone ammassate in case di lamiera e alloggi di fortuna. Senza acqua, senza fogna, alcuni — i più fortunati — con un allaccio abusivo alla rete elettrica. Qui si lotta ogni giorno per sopravvivere e riuscire a sfamare le proprie famiglie: molti uomini sono facchini o scaricatori di porto per pochi pesos, altri sono venditori ambulanti o guidano semplici veicoli a tre ruote, adatti a piccoli spostamenti o trasporti in città; donne e bambini vanno a scavare nelle discariche di rifiuti per riciclare e rivendere materiali ancora utili.

A Manila si contano tre milioni di persone che vivono in baraccopoli: sono i cosiddetti squatters, cioè occupanti abusivi di suolo pubblico. Per loro la chiusura totale significa sprofondare nell’abisso della fame. «Significa non portare un piatto di riso sulla mensa. Significa, per il popolo di devoti, vivere un calvario e una passione che non vede la luce della risurrezione», raccontano i missionari canossiani che nel quartiere di Tondo portano avanti una parrocchia.

La crisi del coronavirus ha un impatto violento sulle sacche di povertà e vulnerabilità in molti dei paesi dell’Asia meridionale e del sud-est come India, Bangladesh, Indonesia, Filippine, Myanmar, Thailandia, fino alla Cina. In quell’area del continente, secondo un rapporto della Banca mondiale del 2017, nel complesso oltre cinquecento milioni di persone abitano in baraccopoli, conseguenza di decenni di urbanizzazione incontrollata e malgestita. L’emergenza coronavirus le ha colte alla sprovvista e ha acuito la loro indigenza. Per questo la Chiesa cattolica nelle Filippine ha intensificato gli sforzi per raggiungere le persone vulnerabili: a Manila numerose scuole e istituzioni cattoliche hanno aperto le porte ai senza fissa dimora e alle famiglie che negli slum non riescono a sopravvivere, garantendo loro un alloggio di emergenza e gli alimenti necessari.

Padre Flavie Villanueva, sacerdote di Manila che normalmente gestisce il Kalinga Center nel distretto di Tayuman, opera sociale dedicata ai senzatetto, si è impegnato strenuamente per non lasciare al loro destino queste popolazioni “senza rete”, senza ammortizzatori sociali, senza risparmi o scorte di cibo. Il sacerdote, dopo ave segnalato la situazione alle autorità civili e all’amministratore apostolico di Manila, monsignor Broderick Pabillo, ha potuto ospitare 168 senzatetto nel campus e nelle strutture messe a disposizione dall’Università De La Salle. Altri luoghi e centri cattolici si sono attrezzati per ospitare i poveri durante il periodo di “quarantena comunitaria” e per consentire loro di vivere una santa Pasqua, non attanagliati dall’indigenza, dice Villanueva a «L’Osservatore Romano». Nel bel mezzo di questa crisi legata alla pandemia del coronavirus, «dobbiamo rendere virale la compassione. Il nostro compito è essere canali di speranza per persone che vivono un inferno», osserva il sacerdote, ricordando che poveri ed emarginati sono «coloro che pagheranno il prezzo più alto in questa emergenza».

Altrettanto critica è la situazione di profughi e rifugiati, residenti nelle tendopoli di emergenza che già di per sé prevedono assembramenti, lunghe file per la distribuzione di cibo e acqua o per usufruire dei servizi igienici: è la condizione in cui si trova oltre un milione di profughi di etnia rohingya che vivono nei campi affollati e angusti nella località di Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove sono arrivati nel 2017 per sfuggire alla repressione militare in Myanmar. «Qui il coronavirus troverebbe campo libero e potrebbe fare una strage», rileva The Sentinel Project, organizzazione canadese impegnata con operatori umanitari in loco. Alloggi senza acqua potabile e servizi igienici, assistenza sanitaria inadeguata e carenza di forniture mediche, oltre che mancanza di accesso alla corretta informazione, rappresentano un terreno fertile per un virus che ha già fatto capolino in Bangladesh: alcuni rifugiati sono infatti in isolamento per motivi precauzionali.

«I campi profughi, qui e in altre zone del sud-est asiatico, possono diventare ben presto focolai per il virus, poiché il distanziamento sociale è praticamente impossibile», ha rilevato il team di Medici senza frontiere in Bangladesh. Inoltre «gli interventi sanitari salvavita richiedono una comunicazione rapida ed efficace», estremamente difficile nelle condizioni strutturali dei trentaquattro insediamenti a Cox’s Bazar, spiega Louise Donovan, portavoce delle Nazioni Unite nei campi.

Poco a ovest del Bangladesh, il lockdown imposto dalle autorità avrà un impatto devastante anche su 450 milioni di indiani che vivono al di sotto della soglia di povertà e sopravvivono in base a precari guadagni giornalieri. Il ministro delle Finanze indiano Nirmala Sitharaman ha promesso l’adozione di uno specifico pacchetto di aiuti destinato alle fasce meno abbienti ma, in un quadro che si presenta già critico, i cristiani hanno fatto appello al governo affinché si prenda cura dei bisogni dei poveri. «Il blocco è necessario ma non è chiaro come sopravviveranno i poveri, gli emarginati, quanti vivono alla giornata, gli sfollati interni. Milioni di persone non hanno frigoriferi per conservare il cibo. Come e dove compreranno da mangiare le famiglie indigenti?», si chiede Mathew George, sociologo cristiano docente alla Christ University a Bangalore. Egli suggerisce di attivare una rete di organizzazioni della società civile per provvedere alle necessità di persone indigenti, migranti, lavoratori precari e tutte le persone impegnate nella cosiddetta “economia informale”. Sima Ranjit, avvocatessa cattolica, aggiunge: «C’è da considerare anche la sopravvivenza di quanti vivono soli in casa, come gli anziani, nei villaggi rurali».

Nel vicino Pakistan un grido di allarme è giunto dall’Associazione degli insegnanti delle minoranze del Pakistan dopo che il governo ha imposto il blocco delle scuole e delle attività pubbliche e private, per contenere la pandemia. Il cattolico Anjum James Paul, presidente dell’associazione, ci racconta: «Abbiamo scritto un’accorata lettera al governo dopo aver appreso una notizia inquietante, legata alle lodevoli misure assunte per fornire assistenza alle persone povere ed emarginate, affinché sopravvivano alla quarantena. Ebbene, a Karachi, alcune organizzazioni si sono rifiutate di dare cibo ai poveri di religione cristiana, negandolo per un motivi religiosi. È una terribile discriminazione, disumana e incostituzionale», afferma, invitando l’esecutivo a monitorare da vicino l’applicazione dei provvedimenti di assistenza intrapresi.

Chiosa al nostro giornale padre Shay Cullen, missionario irlandese della Società di San Colombano, nelle Filippine dal 1969: «Oggi la sfida più difficile in Asia tocca gli abitanti delle baraccopoli e delle periferie. Sono i più poveri e i più vulnerabili. Sono malnutriti, hanno un sistema immunitario debole e non possono isolarsi gli uni dagli altri. Nei bassifondi brulicanti di gente, il distanziamento sociale non è praticabile. Molti non sono neppure registrati all’anagrafe e moriranno da sconosciuti, non conteggiati nei bilanci ufficiali. Sono le vittime senza volto, senza nome e senza dignità che solo il Padre nei cieli potrà riconoscere e abbracciare. Per loro la vita su questa terra è una via crucis. Ma nel Regno dei cieli sono i prediletti».

di Paolo Affatato