· Città del Vaticano ·

A colloquio con l’urbanista Carlo Cellamare

Non-luoghi che tornano a vivere

Particolare di un murale dedicato a Miwa (un personaggio del cartoon Jeeg Robot) a Tor Bella Monaca
02 aprile 2020

Ulrich Beck diceva che tutti noi «cerchiamo la politica nel luogo sbagliato, nei concetti sbagliati, ai piani sbagliati, nelle pagine sbagliate dei quotidiani». La potremmo invece trovare nel fatto che i cittadini esercitano concretamente i loro diritti riempiendoli della vita per la quale ritengono che valga la pena di lottare. Con sottile arguzia il sociologo e regista tedesco aveva capito la grande anomalia che affligge la nostra società; aveva intuito che quella dimensione verticale e bilanciata di diritti e doveri tra cittadini e istituzioni, che dovrebbe essere la nervatura della cittadinanza attiva (tema, peraltro, dell’anno pastorale) dev’essere animata da uno scopo più alto. Che guardi oltre le logiche di mercato, la così detta gentrification, la mercificazione cittadina e sociale e aspiri a un progetto condiviso che resti in equilibrio tra sistema di competenze e capacità socialmente diffuse.

Paradossalmente, in questo periodo in cui ci è negata anche solo una stretta di mano è ancora più chiaro quanto l’aggregazione non sia soltanto una stratificazione storica ma una necessità primaria.

Le iniziative di riappropriazione di luoghi e spazi sono sempre più all’ordine del giorno; eppure tra abusivismo e attivismo il confine è labile e rischia di essere percepito in modo sbagliato. Ma di che cosa si tratta? Di uno spodestamento delle istituzioni o del bisogno di re-immettere nel ciclo vitale luoghi non utilizzati o degradati? Lo chiediamo a Carlo Cellamare, urbanista che insegna alla Facoltà di Ingegneria dell’università La Sapienza di Roma, autore del saggio Città Fai-Da-Te. Tra antagonismo e cittadinanza (Roma, Donzelli, 2019, pagine XVI-186, euro 16).

Come valutare il fenomeno dell’autorganizzazione urbana?

Sempre più spesso assistiamo a pratiche e processi di riappropriazione degli spazi, a Roma come in tante altre città in Italia e nel mondo. Questi sono allo stesso tempo processi di ri-significazione dei luoghi in cui gli abitanti investono per recuperare spazi di vita e ridare valori ai luoghi dove vivono. Allo stesso tempo sono anche risposte a bisogni ed esigenze sociali, come quello della casa o di servizi e attrezzature, come il verde e gli spazi pubblici, che spesso mancano soprattutto nelle periferie. Per questo in alcuni casi rischiano di diventare supplenti o sostitutivi delle carenze della pubblica amministrazione. E per questo possono essere portatori di alcune ambiguità. Se, da una parte, esprimono grandi energie e progettualità sociali e rappresentano veri e propri laboratori di cittadinanza attiva, dall’altra possono dare origine ad atteggiamenti di appropriazione in senso privatistico o esclusivo. Dipende molto dall’idea di città e di convivenza che i protagonisti di questi processi sostengono e portano avanti.

Vengono in mente i tanti fenomeni di autorganizzazione di Roma, come il discusso Spintime, il Porto Fluviale, il Museo Maam, il Metropoliz, o il Teatro Valle occupato, di cui si parla ampiamente nel saggio. Dobbiamo interpretarli come esperimenti o situazioni ormai consolidate? Da urbanista come li valuta? E da cittadino?

Per quanto spesso considerati illegali, queste esperienze di autorganizzazione non solo rispondono a necessità sociali (la casa, la cultura, i servizi sociali e così via) ma anche a bisogni di socialità e di urbanità, a forme di collaborazione per migliorare la città. Sono laboratori culturali e politici dove si sperimentano forme di convivenza nella diversità (pensiamo alla collaborazione e allo scambio con gli immigrati e le tante culture esistenti) e politiche urbane che dovrebbero essere prese a riferimento, comportando riduzione di consumo di suolo, recupero di edifici dismessi, solidarietà sociale, iniziative culturali e attività artistiche, come al Maam, apertura di parchi pubblici, servizi al territorio come palestre, teatri, scuole di lingua per immigrati, biblioteche pubbliche, doposcuola per i bambini, scuole di teatro e di danza. Sono sperimentazioni, ma allo stesso tempo ci raccontano di una città che si sta strutturando in questo modo. Se quindi rappresentano un fattore di cittadinanza e anche l’utopia realizzata di una città alternativa, testimoniano anche del progressivo arretramento del Welfare State e il venir meno della politica e delle istituzioni sui territori.

I quartieri di edilizia residenziale pubblica e la periferia come andrebbero riqualificati? Si potrebbe pensare a un’interazione con le istituzioni, magari con dei bandi? Perché non è stata pensata una soluzione del genere?

Dobbiamo pensare a “politiche per l’autorganizzazione” che siano in grado di sostenere e valorizzare le iniziative che già operano localmente e che vanno nella direzione di un’idea di città accogliente e inclusiva. Non sempre lo strumento dei bandi è il più efficace. Oppure bisogna introdurre criteri che valorizzino appunto le iniziative locali. Bisogna sostenerle perché rappresentano lo sforzo degli abitanti di migliorare i propri contesti di vita. Sono le esperienze che effettivamente portano riqualificazione delle periferie, come ad esempio nel contesto di Tor Bella Monaca. Vanno sostenute e non depresse perché rappresentano la vitalità di questi quartieri, dove spesso non ci sono alternative, se non quelle della criminalità organizzata.

L’autorganizzazione è diventata ed è destinata a diventare il motore fondamentale del “fare città”. Che futuro pensa che avrà?

L’autorganizzazione sta forse diventando un fatto strutturale di fronte all’arretramento del Welfare State e al prevalere del modello urbano neoliberista. Se quindi, da una parte, sono energie importanti e positive per i territori, dall’altra prospettano un futuro problematico. Bisognerebbe pensare non a “meno pubblico”, ma a “più pubblico più intelligente”, ovvero in grado di valorizzare il protagonismo sociale nella misura in cui va verso l’interesse pubblico, come una sorta di grande alleanza con le forze costruttive degli abitanti, anche considerando la perdita di sovranità da parte delle istituzioni dentro la grande competizione globale.

di Flaminia Marinaro