· Città del Vaticano ·

Ognuno con il suo dolore

La collina delle croci diverse

La collina delle croci (Kryžių Kalnas) nei pressi della città lituana di Šiauliai
09 aprile 2020

Grazie a un viaggio di Giovanni Paolo II del 1993 conobbi l’esistenza di Kryžių Kalnas, la collina delle croci, in Lituania. È una piccola altura con una «foresta» di croci. Di ogni dimensione e foggia, secondo l’infinita varietà del dolore. Sembra un bosco fitto e inestricabile. E forse è la fotografia dei nostri giorni nella pandemia. Ognuno con il suo dolore, diverso e incomunicabile. Chi non ha salutato un famigliare sul letto di morte. Chi inizia ad avere il respiro inceppato. Chi attende l’esito di un tampone. «Un dolore che assomiglia solo a se stesso», come ricorda Milo De Angelis nell’intensissima poesia Cartina muta in Biografia sommaria. E, in effetti, è così. Di fronte al dolore imprevisto siamo spaesati, balbettiamo, diventiamo muti.

Sentiamo però vicini gli artisti che parlano al nostro posto e che sanno raccontare il dolore. C’è una poesia del premio Nobel Czesław Miłosz (1911-2004) che racconta la nostra fragilità e la nostra ricerca di un Volto consolatore. È una poesia che specchia il nostro cuore quando siamo senza risposte e vorremmo un segno qualsiasi, anche minimo, fosse anche un frusciare di foglia nel vento.

È la notte per cui passa ogni credente quando crede arida la sua preghiera: «Vieni, Spirito Santo, / piegando (oppure no) l’erba, / mostrandoti (oppure no) con una lingua di fiamma sul capo, / al tempo delle fienagioni, o quando il trattore esce per la prima aratura / nella valle dei boschetti di noci o quando la neve / seppellisce gli abeti storpi nella Sierra Nevada. / Sono solo un uomo, ho dunque bisogno di segni visibili, / il costruire scale di astrazioni mi stanca presto. / Ho chiesto più volte (lo sai) che la figura in chiesa / levasse per me la mano, una volta, un’unica volta. / Capisco però che i segni possono essere soltanto umani. / Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra, / (non me, perché ho comunque il senso della decenza) / e permetti che guardandolo io possa ammirare Te» (Veni Creator).

Le ore del Venerdì santo sono quelle del dolore e della grande nostalgia. Quest’ultima è un sentimento difficile da descrivere per il ventaglio dei suoi colori. C’è riuscito Romano Guardini nel suo Ritratto della malinconia: «Malinconia vuol dire affinità con lo spazio infinito; con le vuote lontananze: il mare, la brughiera, i nudi dossi montani, l’autunno che fa cadere le foglie e dirada e schiarisce gli spazi; il mito, con le sue distanze temporali, che si perdono nell’indefinito passato... Questa malinconia che toglie valore agli esseri, che svuota di contenuti figure e valori ben stabiliti e fermi... Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore».

Il Venerdì santo abbiamo bisogno di un profondo silenzio per guardare il Trafitto trasformando la nostalgia in un’occasione di crescita personale. Nelle nostre strade è sceso un silenzio irreale, come se un inedito e invisibile Re Mida avesse paralizzato ogni cosa al suo passaggio. In questo scenario sospeso, è molto difficile coltivare il silenzio interiore. L’incertezza, con tutto il suo corredo di distrazioni, bussa ossessivamente al nostro cuore.

Ma se davvero riusciamo a fermarci, il nostro sguardo contemplativo all’Uomo dei dolori può aiutarci a “restaurare” la nostra vita. Come Francesco di fronte al Crocifisso di San Damiano. È un sentiero stretto che passa per l’umiltà. Personalmente, mi aiuta sempre molto una vecchia pellicola in bianco e nero. Marcellino pane e vino (1955) di Ladislao Vajda. La storia, semplice e tersa, di un orfano cresciuto in un convento di dodici francescani. E del suo personalissimo dialogo con un crocifisso dimenticato in una soffitta. Nel dialogo più toccante, Marcellino toglie a Gesù la corona di spine chiedendogli se gli facesse male. «Molto», è la risposta del suo Amico sulla croce. L’Amico a cui Marcellino aveva offerto le povere cose che aveva a disposizione: una coperta, un tozzo di pane, un bicchiere di vino.

È soltanto l’immagine di un film, ma è molto suggestiva. Forse può aiutare il nostro raccoglimento, predisponendoci ad ascoltare i silenzi di chi ci sta accanto e non ha il coraggio di chiederci aiuto, o non ne ha la voce perché strozzata dal dolore. Chissà forse quella corona tolta da Marcellino ci richiama alla forza del perdono. Anche quando le ferite sembrano insanabili. Come accadde quel Venerdì sul Golgota al Buon ladrone.

Come ci ricorda anche la poesia di José M. Ibánez Langlois nel suo splendido Libro della Passione: «Gesù è il vuoto di Dio sulla terra buia / su questa notte umana brilla l’ultimo splendore dell’Inri / a questi ultimi derelitti che la vita getta nella sua santa agonia / può ancora giungere la voce più crocifissa che nel buio sussurra / oggi stesso sarai con me in paradiso».

di Alessandro Rivali