Cronache della vita «alla finestra» nei testi di Niccolò Fabi - II

Io sono l’altro

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07 aprile 2020

Le parole e le note dell’ultimo album di Niccolò Fabi, «Tradizione e Tradimento», pur concepite in un altro tempo, si rivelano oggi incredibilmente attuali. Dopo aver aperto con «I giorni dello smarrimento» e «Prima della Tempesta», proseguiamo con l’ascolto di «A prescindere da me» e «Io sono l’altro».

Passano i giorni, alcuni lenti, altri veloci: «un anno come un giorno». Paese dopo paese, la via del lockdown «è più stretta ad ogni giro di lancette», ma ogni governo ha dovuto riconoscere che «alla fine non c’è scelta». Perché la morte è riemersa nella sua invincibilità dai nascondigli in cui l’avevamo confinata, per ricordarci che «l’itinerario umano / non prevede alcun ritorno / ma un’andata / (…) perché è estuario e non un delta». Siamo dunque alla fine? No, «può sembrare ma la vita non è finita / (...) nonostante tutto il male non è finita» — e quel che resta è comunque della «sabbia colorata».

Decisivo sarà avere una «memoria» degli errori commessi — sin dalla spagnola del 1918 — e una «prospettiva» strategica per seguire chi ha battuto sentieri non interrotti. Eppure serpeggia tra i potenti una — eccessiva? — fretta nel riaprire e ripartire, ma «il tempo non si sfida», perché «si muore nel rigore, (...) nel pensiero senza amore / e io è di questo che ho paura». Oggi è infatti necessario un pensiero sia complesso, per sciogliere le rigidità ideologiche sulla colpa del debito, sia semplice, per seguire linee-guida che non sacrifichino i più deboli: «Comandanti, fateci il piacere / se prendete decisioni decisive sulle nostre vite / fatelo soltanto nel momento successivo ad un (...) attimo di pace». Solo così, forse, «avremo un mondo senza rabbia» — senza anime in frantumi — e il «mondo senza guerra» auspicato sia dall’Onu che dalla Santa Sede.

Sanità, scuola, ambiente, lavoro, economia, consumi: nulla tornerà come prima, in attesa di un vaccino, e forse neanche dopo, se riusciremo a non tornare a quel prima fatto di tagli e precarietà, inquinamento e scarti, evasione e nero, ma nel deserto quasi monastico di questa “prigionia” sapremo reimparare con pazienza «a prescindere dal tempo / a prescindere da tutto / a prescindere da me». Dalle mie abitudini, in termini di igiene, distanza sociale e strumenti protettivi; dalle mie libertà, purtroppo, se e quando saranno avviati tracciamenti e test sistematici. E se qualcuno domanderà «cosa c’entrerò mai io con tutto questo?», risponderemo che possiamo essere contagiosi anche se non lo sappiamo, per cui saremo la nostra e altrui salus se con responsabilità personale faremo nostro il mantra che ripete «io sono l’altro».

L’altro: «quello che spaventa», ma che ritrovi «nello specchio / la tua immagine riflessa / il contrario di te stesso». Il covid-19: «l’ombra del tuo corpo / (...) l’ombra del tuo mondo», l’ennesimo nemico invisibile contro cui andare “in guerra”, dimenticando che a sconfiggerlo sarà un vaccino, ossia un atto di accoglienza controllato. Un familiare in quarantena che «ti dorme / nella stanza accanto». Il «padre del bambino handicappato» che ha chiesto la deroga al lockdown per passeggiare con il figlio. Chi invidiamo perché «sembra più sereno / perché è nato fortunato o solo perché ha vent’anni in meno». «Quello che urla come un pazzo» quando ha saputo di essere positivo. Chi assume una «scelta o posizione / che non si comprende», fosse anche il «presidente del consiglio».

L’altro, d’altra parte, è anche «quello che fa il lavoro sporco / al tuo posto»: medici e infermieri che per vocazione stanno offrendo ogni giorno il loro corpo in sacrificio per noi, accompagnando spesso i morenti nell’ultimo respiro. «Il donatore che aspettavi», essendo ormai terminati i respiratori. Il suicida che ieri «hanno licenziato», il senzatetto «che dorme sui cartoni alla stazione», «il nero sul barcone» che ora serve perché è tempo di raccolta, quel milione di badanti e colf a oggi prive di tutela. Tutte vittime silenziose e solitarie, tutte alterità che interpellano in profondità il nostro senso di interdipendenza e cooperazione dicendoci: «Quelli che vedi sono solo i miei vestiti / adesso facci un giro e poi mi dici».

di Sergio Ventura