· Città del Vaticano ·

Il prefetto della Congregazione per il clero parla di questo inedito Giovedì santo

In lotta con Dio

Alexandre-Louis Leloir, «La lotta di Giacobbe con l’Angelo» (1865)
09 aprile 2020

È un Giovedì santo diverso dagli altri, questo nell’anno della pandemia del covid-19. Il 9 aprile il Papa, che non ha celebrato al mattino la messa del Crisma, nel pomeriggio presiede quella “nella Cena del Signore” all’altare della Cattedra della basilica di San Pietro, ma senza il rito della lavanda dei piedi, già facoltativo, né la processione offertoriale, né infine la reposizione del Santissimo. Come lui, tutti i sacerdoti, soprattutto in questi giorni del Triduo santo, stanno sperimentando nuovi modi per stare vicino al popolo di Dio, utilizzando anche i social media. Cercano di vivere in pienezza il ministero pastorale, senza dimenticare come la storia biblica insegni che anche nei momenti più bui e drammatici, il Signore suggerisce spazi alternativi per lodarlo e servirlo. Ne parla in questa intervista all’«Osservatore Romano», il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero, augurandosi che la gente — una volta terminata l’emergenza — guardi ai preti con la stessa riconoscenza dimostrata nei confronti dell’impegno eroico di medici, infermieri, operatori sanitari e forze dell’ordine.

Quest’anno, a causa della pandemia, la messa crismale del Giovedì santo, in molte diocesi non viene celebrata, ma rimandata a data da destinarsi. Come rinnovare le promesse sacerdotali in un contesto di drammatica emergenza?

La storia biblica tante volte ci narra situazioni di grande crisi e drammi per il popolo, nei quali addirittura il Tempio è distrutto e diviene impossibile praticare il culto. Desolanti al riguardo le parole di Geremia: «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno cosa fare» (14, 18). Eppure, in queste circostanze apparentemente senza speranza, Dio suggerisce altri spazi per lodarlo e servirlo; in questo modo Egli ci purifica anche da alcuni nostri adusi schemi pastorali e da certe forme troppo esteriori, che talvolta possono oscurare la bellezza del Vangelo e la freschezza del rito liturgico. È noto che nella messa crismale, così denominata perché vengono consacrati dal vescovo gli olii per i sacramenti del battesimo, della cresima, dell’ordine sacro e dell’unzione degli infermi, il rito prevede la rinnovazione delle promesse sacerdotali, che esplicitano gli impegni assunti il giorno dell’ordinazione in relazione alla propria vita e al proprio ministero. Ora, se tali promesse vogliono esprimere la profonda identità del prete, cioè che egli non riceve l’ordinazione per propria soddisfazione, ma è segno vivo del Cristo Buon Pastore che offre la vita per i suoi fratelli, il Giovedì santo abbiamo l’opportunità di rinnovarle non solo con le labbra e nella preghiera della messa crismale, ma questa volta portando sulle nostre spalle la immane sofferenza del popolo cristiano e dell’umanità, offrendoci come intercessori presso il cuore di Dio. Pur rispettando le distanze precauzionali che ci vengono chieste, abbiamo tante possibilità per esprimere prossimità umana e spirituale e testimoniare nelle maniere opportune l’offerta della nostra vita per il gregge. Nel silenzio del cuore, è una preghiera autentica che il Padre gradisce e che ricade sul popolo di Dio come un balsamo che lenisce la solitudine, la paura e il male. Sono certo che nella mattina del Giovedì santo, soffrendo interiormente l’assenza del gesto liturgico, nessun sacerdote ha dimenticato di mettersi davanti al Signore rinnovando con umiltà e profondità le promesse dell’ordinazione.

Come possono esercitare il loro ministero i preti in questo tempo?

Sono convinto che questa sia per il sacerdote, interpellato davanti a Dio e al popolo cristiano, un’occasione propizia per fermarsi, discernere e valutare il dramma che viviamo, nell’ambito della sua responsabilità ministeriale. Osservo che proprio in queste settimane si è risvegliato nei sacerdoti un nuovo desiderio di evangelizzazione e di cura pastorale del popolo di Dio e, perciò, sta emergendo una creatività che ci rende comunque vicini alla gente che sente, con grata nostra sorpresa, la “fame” dell’Eucarestia. Forse mai come ora le comunità percepiscono in cuore una vera nostalgia della propria chiesa, degli incontri fraterni che vi si tengono e soprattutto della celebrazione della messa. I presbiteri, specialmente grazie all’utilizzo dei social media e dei numerosi strumenti della comunicazione digitale, si sono poi attivati in una serie di iniziative che percorrono il web, cercando di offrire una ricca varietà di messaggi, di preghiere, di omelie e meditazioni della Parola di Dio, e altro ancora. Sono modi attraverso cui possono esercitare un vero ministero anche in tempo di pandemia, rimanendo vicini, anche se distanti.

Si sono trovate modalità interessanti per la pastorale?

Come risposta a una situazione di grande fatica e sofferenza, che ha paralizzato le nostre energie e costringe le persone a un forzato isolamento, si sono attivate altre iniziative pastorali di presenza, non solo virtuale, che attraverso gesti e parole arrivano al cuore dei fedeli. Anche in queste novità creative lo Spirito Santo opera e sostiene il cammino dei credenti, nell’ora dell’attraversamento del deserto. Tuttavia, c’è un aspetto da non trascurare, che chiama i sacerdoti a una particolare attenzione pastorale: questo difficile momento può aiutare le persone a riscoprire la dimensione della Chiesa domestica, la bellezza della preghiera in famiglia, l’importanza della lettura del Vangelo nelle proprie case. Per aiutare il popolo cristiano a ritrovare profondità nel rapporto con Dio, mi consta che tanti parroci, ad esempio, stanno preparando per le famiglie foglietti simili a quelli della messa, in cui insieme alle letture della domenica e a una breve riflessione, sono indicati anche un segno da mettere al centro del tavolo, un gesto cristiano da condividere, la recita del Padre nostro o di una preghiera mariana. Abbiamo visto anche piccoli rami di ulivo e i disegni biblici dei bambini esposti fuori dalle case, come espressioni vive della fede della famiglia.

In che modo il presbitero può evitare la tentazione — da cui ha messo in guardia il Papa nei giorni scorsi — «di fare il don Abbondio»?

Anzitutto, la convinzione interiore, per ogni sacerdote, deve essere questa: la sospensione delle liturgie e le distanze di sicurezza non devono mai diventare un alibi per isolarsi o per riposarsi. Non dubito che i sacerdoti sono rimasti toccati dal sacrificio di tanti confratelli morti nel contagio; nella loro sofferenza e nell’isolamento dei reparti medici, guardando in faccia l’eternità, questi preti avranno pregato e offerto la vita per le loro comunità, portando davanti al Signore nel tormento della malattia, le necessità materiali e spirituali del loro popolo. Con il cuore avranno visto il volto dei loro giovani in crisi di fede e di tante mamme nell’affanno e nella sofferenza per sostenere le stanchezze e le fatiche delle famiglie. Parlando con qualche sacerdote, mi ha emozionato sentire al telefono la voce rotta da un vero singhiozzo per l’umana impossibilità di soccorrere i fedeli nel dramma presente. Ho percepito quindi il valore della preghiera di intercessione per il popolo di Dio, tante volte sottolineata da Papa Francesco, come quando ha chiesto ai sacerdoti di «lottare con Dio» in favore dei loro fedeli. Ho raccolto anche la fatica dei sacerdoti, esauriti nel conversare con la gente al telefonino, che avvertono l’importanza di questo sostegno spirituale nella disperazione di tanti cuori. In contrasto con il “don Abbondio” chiuso in canonica di cui ha parlato il Papa, vedo anche il sacerdote nei banchi della sua chiesa, in attesa della visita di qualche fedele, pronto a dare la sua benedizione e a dire una parola di speranza e di consolazione. Come ci ha raccomandato il Pontefice all’inizio di questa dolorosa tragedia, immagino che i pastori in qualche caso abbiano potuto portare anche l’unzione degli infermi o il santo Viatico nella casa di un moribondo. Mi ha fortemente impressionato l’esempio di fedeli laici — medici o infermieri — che hanno saputo manifestare la fede in Gesù Risorto, tracciando sulla fronte dei morenti il segno della croce. Non potremo mai dimenticare il gesto dei sacerdoti che sono passati davanti alle bare dei loro fedeli con la benedizione della Chiesa, affidando i defunti, passati alla vita eterna, al cuore misericordioso di Dio Padre, portando nella propria persona, nell’impossibilità di farlo altrimenti, la presenza dell’intera comunità. Ogni buon prete avrà saputo inventare la sua propria formula, i suoi propri gesti, raccogliendo l’impulso interiore del suo essere pastore e quello della voce dello Spirito Santo che lo porta a essere attivo e vigile in mezzo alla sua gente, secondo le consuetudini culturali e liturgiche di ogni Paese. Vorrei davvero che un domani, quando saremo usciti da questa infinita pandemia, si pensasse ai sacerdoti con una gratitudine e un affetto simili a quelli con cui tanta gente oggi parla di medici, infermieri, operatori sanitari, forze dell’ordine presenti sul campo sino all’eroismo.

di Nicola Gori