· Città del Vaticano ·

Riflessioni sul personale medico al tempo del coronavirus

Figure di riferimento non solo operatori sanitari

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01 aprile 2020

Solo un mese fa l’«Indian Journal of Psychiatry» titolava: «Violenza contro i medici: un’epidemia?» e in gennaio il «British Medical Journal» riportava che un terzo dei medici soffre di burnout, cioè insoddisfazione ai limiti della depressione. Ora d’improvviso invece, nell’ombra del nefasto coronavirus, non si fa che leggere di medici eroi: il 24 marzo la Cnn addirittura titolava «I veri eroi moderni sono gli operatori sanitari» riferendosi ai casi cinesi e italiani. Dalle stalle alle stelle, pare di dover dire, invertendo il celebre assioma, come se qualcuno finalmente si fosse accorto che il mestiere di medico e di infermiere è un mestiere speciale.

Già, perché la tendenza finora è stata quella di assimilare il campo medico a qualunque altro lavoro misurandone costi, effetti e soddisfazione dell’utenza. Insomma, il rapporto medico-paziente è diventato un rapporto contrattuale, così come lo sancisce anche il nuovo codice deontologico italiano o recenti leggi, che affermano che «il centro del rapporto medico–paziente è il consenso informato», come se invece i concetti di fiducia, di rispetto, di onestà ne fossero un insignificante corollario. Il centro è la firma del contratto che il paziente legge e il sanitario sottoscrive; poi si verifica se quanto sancito è stato ottenuto. E tremila anni di storia medica basata sul concetto ippocratico di beneficenza sono stati messi in un armadio e chiusi bene a chiave. Ma se il rapporto medico-paziente è diventato quello tra operatore e cliente, se la sanità è «dare il massimo dei servizi con la minima spesa», se gli ospedali sono diventati «aziende», è chiaro che scatta la diffidenza, poi l’insoddisfazione, e infine l’intolleranza. Perché è cambiato il criterio di sanità, come ben spiegava Peter Illich nel suo Nemesi Medica: avendo cessato di curare la persona e iniziato a curare le malattie, il mestiere del medico si rivolta contro se stesso in una sorte di nemesi, deriva di una società che vede tutto nell’ottica dei protocolli e delle leggi da seguire, dei contratti e delle istruzioni operative, e non della persona che vuole anche — scriveva Illich — «trovare negli occhi del medico un riflesso della propria angoscia e un qualche riconoscimento dell’unicità del proprio soffrire».

Ora è avvenuto l’impensabile: con la minaccia mortifera del coronavirus la gente si è sentita sola, impaurita e ha visto che ci sono delle figure di riferimento che non sono solo degli «operatori sanitari», ma persone che ora l’immaginario collettivo identifica come eroi che hanno a cuore tutta la loro persona, che sanno dare tempo in più, che rischiano qualcosa in più a contatto col flagello in corso. Troppa idealizzazione, diciamo noi dall’interno di questa mega struttura sanitaria onnivora e burocratizzata; ma è interessante che questo fenomeno sia avvenuto. È la rinascita delle virtù contro la società dei protocolli, che la gente sta invocando, e la trova in queste figure finora neglette. Ricorda il grido «Dottore mi salvi!» che nel film di Elia Kazan Viva Zapata! il dittatore Carranza rivolge al suo medico e poi, alla fine del film viene rivolto dal nuovo dittatore che ha spodestato il primo: come se, indipendentemente dalle convinzioni, ciascuno cercasse nel medico una compagnia ferrea, una sicurezza cristallina. Certamente questo va al di là di quanto un medico può fare, ma conferma la necessità che la figura medica non sia solo il «fornitore di un servizio» a pagamento e dietro garanzia.

Per secoli il medico è stato un alleato e un confidente, un padre e un controllore; poi è crollata la fiducia, forse per troppo paternalismo, forse però anche perché tutto doveva essere protocollato e burocratizzato, spersonalizzato e commercializzato. Il medico è entrato in un meccanismo di produzione, di incentivi, di orari da rispettare, di formalismi e di burocrazie. Basti ricordare la figura amara del dottor Guido Tersilli nel film Il Medico della Mutua interpretato da Alberto Sordi, che aveva appreso che se per un semplice taglio metteva un punto di sutura in più gli scattava l’incentivo e veniva pagato come «intervento chirurgico».

Il medico passa dall’essere sotto attacco alla glorificazione; ma ricordiamoci che Bertoldt Brecht diceva: «Sfortunato quel Paese che ha bisogno di eroi», non dileggiando chi eroe è, ma compatendo chi ne ha bisogno perché vive una vita solitaria, burocratica e senza speranze. Sicuramente oggi noi medici e infermieri siamo in trincea, a contatto con un brutto nemico, molti danno molto più di quanto viene richiesto dai protocolli e molti sono incitati a farlo, basti vedere quanti gesti di solidarietà interregionale e internazionale si svelano in questi giorni.

Ma forse anche questa glorificazione da eroi è eccessiva: se non cambia il sistema anche gli slanci personali sono destinati ad avere breve respiro. Ma noi vorremmo tutti, medici e pazienti, un mondo medico sulla misura di questi giorni: in cui il rapporto curante-curato non si basasse tutto su rapide ed estorte informazioni, in cui non ci si nascondesse dietro pagine fredde di consensi illeggibili da firmare, in cui i sanitari avessero continue motivazioni, e in cui ci fosse più alleanza e meno contratti.

di Carlo Bellieni