· Città del Vaticano ·

Nelle poesie di Cesare Viviani

Elogio dell’imperfezione

Vincent van Gogh, «Notte stellata» (1889)
02 aprile 2020

La verità elementare è che siamo imperfetti. Certo, il progresso tecnologico e culturale ci hanno portato a credere di poter fare quasi tutto. Appunto, quasi, tutto. In quel “quasi” sta la nostra finitezza. Ma il “quasi”, spesso lo teniamo tra parentesi, ne facciamo motivo di vergogna, sinonimo di vulnerabilità, in un mondo che ci vuole invece sempre vincenti e invulnerabili. Il fallimento non è contemplato, comunque è innominabile. Eppure, basta poco a far crollare le nostre frivole certezze. E non serve una guerra, o la catastrofe climatica o la devastazione del territorio (si tratta pur sempre degli effetti del delirio di onnipotenza dell’uomo contemporaneo); anzi, ciò che è davvero dirompente è un microscopico elemento del tutto naturale, un virus.

Le conseguenze sono agli occhi di tutti; sotto una patina di euforica quanto effimera speranza, ci chiudiamo in casa, nelle mascherine, nei guanti, sotto strati di detergenti igienizzanti. Ci nascondiamo al mondo reale, e nella realtà c’è tutta la nostra imperfezione. Quella imperfezione che però abbiamo sempre appunto inteso come sinonimo di fragilità, difetto di fabbrica, precarietà. E se invece l’imperfezione fosse non un attributo, ma la caratteristica prima della nostra straordinaria natura (umana)? E se invece l’imperfezione custodisse un valore, esprimesse una possibilità?

Me lo chiedo insistentemente leggendo l’ultimo bel libro di poesia di Cesare Viviani, Ora tocca all’imperfetto (Torino, Einaudi, 2020, pagine 121, euro 11), da cui è stata tratta la poesia I gesti, la parola d’amore, già pubblicata nella rubrica del quotidiano «Le domande della poesia».

È chiaro fin dalle prime pagine del libro che i versi intendono procedere per verità, le poesie consecutive, in un andamento quasi poematico e al tempo stesso dialogante. Ogni poesia sembra iniziare dove accenna la fine la precedente, ma non si percepisce una reale cesura, piuttosto una leggera sospensione, come la pausa in un ragionamento, che raccoglie le idee, le riorganizza per un successivo pensiero. Di cosa ci parla questa poesia, perché ci riguarda? Quale coerenza etica (e conseguentemente formale) sostiene questa esperienza di Viviani (di esperienza di pensiero, aderente alla realtà, si tratta)? Viene innanzitutto da pensare alla persistente e paradossale oscillazione degli opposti (vita/morte, passato/presente/futuro, chiuso/aperto).

Il poeta stesso suggerisce che il senso della vita, quello che abbiamo fatto, possa essere, è racchiuso nelle «oscillazioni delle messi al vento». Tuttavia, dobbiamo confessare che ci poniamo sempre in bilico su un versante, quello dell’ego, così nel pieno delle energie giovanili (oggi anche “giovanilistiche”) puntiamo «al miracolo, al prodigioso, al sovrumano», tendendo quanto più possibile a liberarci dell’altro.

Ma se la cronaca è la «povera breve esistenza umana, / che va in cerca di verità», bisogna arrendersi al fatto che nello scorrere degli attimi «il valore della vita è incomprensibile». Siamo quindi anche noi in balìa della oscillazione tra gli opposti, in cui sperimentiamo, ci piaccia o no, tante specie di dolore, che non si riesce nemmeno a distinguerle; dolore che però è ripartito equamente, tra uomini e popoli (le cronache di questi giorni ne offrono ulteriore drammatica conferma). Tuttavia, per istinto naturale possiamo percepire che «c’è un punto di equilibrio raro, / sfuggente, evanescente, / tra amore e rinuncia, tra aroma e esaurimento», ma «è nel buio, a notte fonda, / che devi cercare». Allora possiamo vedere che «dietro questo mondo/ ce ne sta uno invisibile/ che lo sostiene». Anche la morte è una lente; dopo morti si vede com’è la vita e come la si può vivere. Certo, possiamo sempre rivendicare l’assoluta centralità dell’intelletto, fino a negare la nostra ascendenza, ma Viviani osserva che «rifiutare Dio/ è la pena maggiore…/ è pensare che ti sei fatto da solo, / che ti sei dato la vita». E invece «forse siamo tutti — lo si voglia o no — / figli di Dio,/ anche se non ci crediamo, / anche se non c’è un segno, uno, / che ce lo possa far credere».

La poesia di Viviani è caratterizzata da estrema misura, esattezza di luce, frutto di una precisa e laboriosa raffinazione. Così, può offrire la metafora del suo pensiero in un cancelletto mosso avanti e indietro dal vento, ma fermo sui cardini. Si tratta a ben vedere, di una oscillazione stabile, incardinata, si muove “appena”, è una dinamica impercettibile, e lì trova misura l’imperfetto. In quello iato di imperfezione trova spazio una sorta di completezza, che non è legata alla nostra fragile volontà materiale. L’imperfezione dunque si pone come occasione cui possiamo accedere consapevoli e che possiamo con animo rinnovato, finalmente toccare.

di Nicola Bultrini