Poesia e «paesologia» nell’opera di Franco Arminio

Domicilio dell’infinito

Un incontro del festival «La luna e i calanchi» organizzato da Franco Arminio ad Aliano
08 aprile 2020

Quello di Franco Arminio può a tutti gli effetti definirsi un caso letterario. Il poeta campano, in particolare nell’ultimo anno, è un autore che molto ha contribuito a rendere popolare la poesia, genere solitamente confinato ai circoli per pochi. Le sue presentazioni e i suoi reading riempiono librerie e teatri; le sue ultime raccolte hanno fatto registrare vendite molto superiori rispetto alle tendenze del genere. Perché? Di certo Arminio catalizza attenzione anche con iniziative non direttamente legate alla forza della parola poetica, come festival culturali e campagne di sensibilizzazione (tra cui quelle per il rilancio dei paesi). Ma tutto questo non esaurisce la domanda sul perché di tanta attenzione, non esclusa quella di molti giovani, che attraverso di lui scoprono il gusto per la poesia, anche (e perché no?) seguendolo quotidianamente attraverso i social. Quali corde umane tocca la sua poesia?

Per un inizio di risposta — certe domande non si esauriscono — ha senso maneggiare la sua ultima raccolta L’infinito senza farci caso (Milano, Bompiani, 2019, pagine 128, euro 14) dove ha scelto di raccogliere poesie d’amore. E come ne esce, l’amore? Che cos’è, l’amore, per Franco Arminio?

Il senso si chiarifica nella definizione del suo contrario, che l’autore chiama «pornografia»: il rapporto che non sa essere richiamo a un oltre, «domicilio per l’infinito». «Povera cosa il sesso / senza un buon uso / delle stelle. / Darsi a qualcuno è possibile / solo se sappiamo che l’amore / è una preghiera». O altrove: «Il sesso è sano / quando lo cerchiamo per dare / domicilio all’infinito».

Arminio, con la sua capacità di riduzione all’essenziale (anche linguistica) ci riporta con evidenza al bivio estremo della vita, alla duplice possibilità con cui possiamo guardare e trattare, giocoforza, tutte le esperienze umane: un niente che si consuma (anche quando accomoda e dà piacere) o un altro apparente niente (magari fragile e in apparenza insignificante) che però rimanda ad altro, che della morte giunge a contestare il regno: «Se veramente amiamo / un uomo, una donna, una rosa / noi, da vivi e da morti / possiamo fare ogni cosa».

Ed è martellante, in questa come in altre sue raccolte, il tema della morte. Martellante, mai desolante. La morte (e i morti) nella poetica di Arminio sono spazio di vicinanza al mistero, richiamo a un senso più umile di noi stessi, a un rapporto più delicato col cosmo e col segreto che lo pervade: «Un mondo che smette / di pensare ai morti / è pornografia».

La morte così non è da cancellare, ma a tratti pare quasi affine all’amore, che pure sembra sopravviverle, come in questi versi semplici e meravigliosi, tra i più belli della raccolta. «Lo so che quando morirai / tu amerai ancora./ Per te non è difficile/ il tuo respiro fa fiorire / le arance».

È poesia dell’alterità quella di Arminio; dell’altro come necessità e come ossigeno, come ciò che all’io dà consistenza. «In certi giorni io cammino / con le gambe della tua voce». O anche: «Si diventa cenere/ è sicuro/ Ma intanto senza di te/ già sono farina/ nel mulino del nulla». Ed è poesia dell’uscita da sé, come in questo verso della lirica di chiusura della raccolta: «Ogni radice nella terra / è un occhio che vuole / uscire a vedere qualcosa».

Nota di merito per Arminio — e cosa rara in questi tempi — è poi il sapere essere popolare senza essere populista. Non dice al lettore solo quello che vuole sentirsi dire: il suo appello non è indulgenza, ma chiarezza che mette in discussione. «Ho fatto tanti errori/ nella mia vita. / Questo ognuno di noi lo dice. / Quello che non sappiamo dire/ è questo:/ ho fatto tanti errori/ nella vita degli altri». Ma il vertice poetico, forse, giunge quando il colpo dell’amore si fa domanda e vertigine, fino a contestare l’apparente: «Se è vero che tutto è fumo/ perché lo spavento/ è così vero/ l’amore così duro?». Come ne esce, l’amore? Bene, benissimo. Per quello che è: testimonianza di una speranza possibile, “prova”. «Sei la prova/ che l’universo non è tutto/ un crepacuore».

di Giuseppe Suriano