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Le “vicissitudini del tempo” nella Via Crucis di Mario Luzi

Cronache di un mondo altro

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10 aprile 2020

Quindici anni fa moriva Mario Luzi. Poeta fra i più grandi del Novecento, Luzi non ha mai rinunciato, attraverso il suo magistero poetico, a testimoniare apertamente e coraggiosamente il suo cristianesimo. La mancata assegnazione del Premio Nobel può forse spiegare in parte la scarsa attenzione della critica in occasione dell’anniversario. A questo proposito ho un ricordo personale.

Il 12 aprile 1999, a pochi giorni da quella Via Crucis per cui aveva scritto i testi delle meditazioni, Luzi partecipò allo spettacolo di poesia e musica Una grande anima in una stagione malata al Teatro Ghione di Roma, con presentazione di Elio Fiore e di chi scrive. In quell’occasione, alla mia domanda se non pensava che la stesura dei testi per la Via Crucis avrebbe potuto ulteriormente pregiudicare l’assegnazione del Nobel, Luzi rispose che nessuna altra considerazione, fosse anche l’assegnazione di un premio prestigioso, avrebbe avuto il potere di impedire la sua testimonianza, una testimonianza fondata sulla consapevolezza che essere cristiani significa accettare la via di Cristo fino alla Croce.

L’ottantacinquenne poeta, candidato già sette volte al Nobel, rivendicava così il valore di testimonianza in favore della verità di quei testi, tra sacra rappresentazione e monologo, che, tenendo presente dell’amato Borges — in particolare degli articoli a lui dedicati, apparsi sul «Corriere della Sera» e poi raccolti in Cronache dall’altro mondo (Marietti, 1989) — la descrizione di un Cristo votato all’umano e al creaturale, riproponevano l’angoscia di un Cristo «dibattuto fra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza».

Quello di Luzi è un Cristo innamorato della sua condizione umana («È bella la terra che tu hai dato all’uomo e alle altre creature del pianeta [...] Io non sono di questo mondo eppure non potevo se non teneramente amarla») che non cessa mai, nonostante tutto, di amare tanto che il poeta può concludere: «L’offesa del mondo è stata immane. Infinitamente più grande è stato il tuo amore». Al centro della vicenda umana di Cristo e dell’intera opera poetica di Luzi è questo rifiuto della disperazione e questa scommessa sulla vita, la consapevolezza che il cammino mortale è verso la Resurrezione.

Nella Via Crucis di Luzi l’apostolo Giovanni, stupito e incredulo alla notizia della Resurrezione, passa, a partire dall’agonia di Gesù, attraverso l’angoscia della Passione e il tentativo di coinvolgere il Padre reclamandolo nel momento in cui più la sua presenza sembrerebbe mancare: «Gesù ha sete, gli portano alle labbra/ una spugna imbevuta d’aceto — Perché Padre mi hai abbandonato? —/ È il suo ultimo grido umano./ È di uomo infatti l’estremo pensiero/ del Figlio dell’uomo sulla terra».

Nella stagione ermetica Luzi era chiuso nella sua identità personale. Ora, nei testi per la Via Crucis, il poeta si apre da cristiano al destino, partecipe di uomini, fiumi, piante, animali dal momento che i Vangeli lo richiamano all’immensa vitalità che promana dal Verbo.

È giusto sottolineare questa dimensione metafisica della poesia di Luzi; in proposito, non si può fare a meno di citare le celebri pagine di Giacomo Debenedetti. Il grande critico piemontese vi commenta la lirica Nell’imminenza dei 40 anni di Onore del vero: «Il pensiero m’insegue in questo borgo / cupo ove corre un vento d’altipiano / e il tuffo del rondone taglia il filo / sottile in lontananza dei monti». Scrive Debenedetti: «Potrebbe essere uno di quei paesaggi sintetici, di quei riassunti paesistici che vediamo negli sfondi dei quadri rinascimentali: il borgo cupo, l’altipiano trascorso dal vento, i rondoni, il crinale dei monti ritagliato nel suo sottile profilo». Poi aggiunge: «Dove si trova il paesaggio che fa da sfondo alla Gioconda o a certe scene d’aria aperta nelle Storie della Croce di Piero della Francesca?».

E appunto si pensa a Piero della Francesca e alla sua sintesi di reale e trascendente nelle Storie della Croce, si pensa alla Gioconda — il paesaggio che diventa stato d’animo, che dà un senso di inquietudine e movimento, quella strada tortuosa come un discorso che chiude all’infinito — ma soprattutto si pensa alla misteriosa deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano menzionata in Ritorno a Siena.

Quindi, dopo aver messo a confronto il “borgo cupo” di Luzi con il natìo borgo selvaggio di Leopardi, Debenedetti continua a proposito di quel bilancio esistenziale: «Tutto questo non è stato vano perché è proprio l’opera di ciascuno e di tutti in una storia collettiva degli uomini che accomuna quelli che sono e quelli che sono stati, i vivi e i morti: una storia quindi che può essere fatta del sommarsi successivo delle conquiste nel corso del tempo ma anche risaltare dal destino cumulativo del genere umano al di fuori delle vicissitudini del tempo». E non a caso si parla delle “vicissitudini del tempo” come a una significativa chiave per intendere la poesia di Luzi.

Concludendo, afferma che le conseguenze di quella presa d’atto consistono nella sicurezza di potersi incamminare in quello che la sua religiosità progetta essere il mondo, compresenza eterna del tutto nella vita e nella morte. E l’unica cosa che si sente di dire di quella esperienza religiosa è che «si tratta di una visionarietà mistica» se è vero che «il mistico è tipicamente l’uomo che si libera della propria fisionomia individuale, del suo io, che si stacca anche dalla continuità del suo tempo cronologico, vissuto per spiccare il salto nell’eterno, cioè fuori del tempo» (e a questo proposito è giusto richiamare T.S. Eliot e «the intersection of time and timeless»).

Interrogandoci su quei paesaggi sintetici di cui parla Debenedetti consideriamo la descrizione della Val d’Orcia nella sua evoluzione. A partire da Su fondamenti invisibili ecco che i dossi lisciati dal vento divengono dune e compare la metafora del mare a indicare la natura e il senso di quel paesaggio enigmatico che si viene precisando sempre più come un paesaggio originario, terra “terrosa” e insieme ultraterrena, grembo a cui far ritorno, luogo d’elezione di una simbolica pasqua dove l’anno (o l’anima) è al centro della sua vittoria e che è momento di grazia dentro e fuori dal tempo.

Nella Via Crucis di Luzi è la certezza del superamento della morte: «La morte ha perduto il duro agone». Verso che ne ricorda un altro, celeberrimo, di Dylan Thomas che pure non si riferisce alla Pasqua ma alla speranza e al senso stesso della poesia: «E la morte non avrà dominio».

di Sabino Caronia