· Città del Vaticano ·

Decalogo dell’ecumenismo

Benedetto dubbio

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15 aprile 2020

Nei mesi passati, nel quadro del dialogo ecumenico, si sono tenuti diversi eventi internazionali a cui hanno partecipato l’Argentina e altri paesi dell’America Latina. La storia, la pertinenza, la prassi, l’esperienza e la vitalità di tali incontri, soprattutto in Argentina, sono stati consistenti, vari e diversi, per lo meno negli ultimi vent’anni. Per questo motivo, e solo come un ulteriore contributo, viene qui proposto un decalogo, volutamente incompleto ed essenziale, del dialogo ecumenico. È stato elaborato ricorrendo alla congiunzione avversativa “piuttosto che”, a mo’ di genere sapienziale, per riflettere sui contrasti insiti nella natura di tale dialogo. Si utilizza il termine “ecumenismo”, in greco oikoumenē o “terra abitata”, perché con ciò s’intende che alla sua radice include quello che viene definito “dialogo interreligioso”.

1. Diversità piuttosto che uniformità. La ricchezza nel dialogo, capace di costruire ponti d’incontro e non “torri di Babele”, con una semantica univoca, è un requisito fondamentale dell’ecumenismo. Affinché “il tutto” sia al di sopra delle “parti”, queste ultime devono esistere e coesistere in un’armonia inclusiva, che quindi le trascende. Se c’è un’unicità che va riconosciuta è quella costruita in modo armonioso e intesa come diversità riconciliata.

2. Cosmovisione piuttosto che monovisione. Dovremmo volgere il nostro sguardo verso orizzonti e universi variopinti e diversi. Rinchiuderci nella nostra visione parziale e considerarla unica non aiuta l’ecumenismo. Saperci parte di un cosmo multiforme ci arricchisce dal punto di vista non solo individuale ma anche sociale e comunitario.

3. Pedagogia piuttosto che ideologia. Essere aperti ad apprendere e comprendere da chi pensa e vede la propria fede in modo diverso è essenziale. A tal fine la pedagogia del dialogo richiede prima di tutto l’ascolto silenzioso e poi l’espressività propria della nostra spiritualità. Spesso la religione rivestita di ideologia non ascolta e cerca solo di convincere. Siamo soliti dire che la spiritualità rende liberi mentre l’ideologia rende schiavi.

4. Il naturale piuttosto che l’ideale. Uso qui il termine “naturale” per riferirmi al rapporto che ognuno ha con il creato, gli esseri viventi, la “madre terra” per alcuni, e all’urgenza di consensi in un ecumenismo ecologico. Il termine “ideale” si riferisce invece a concetti astratti, che sono certamente buoni e costruttivi, ma che spesso vengono usati per evadere o sfuggire da realtà concrete più impegnative.

5. Identità piuttosto che universalità. Questo concetto non contraddice quelli precedenti, anzi conferisce loro un posto fondamentale nell’ecumenismo. Conservare la propria identità di fede, la propria spiritualità e le proprie convinzioni è un requisito non solo onesto ma anche essenziale nell’ecumenismo. D’altro canto, “liquefare” queste identità a favore di una mescolanza uniforme chiamata “universalità” disintegra la possibilità dell’incontro con il diverso.

6. Fondamenti piuttosto che fondamentalismi. Questo concetto completa quello precedente e al tempo stesso mette in guardia contro uno dei rischi dell’ecumenismo. Conservare l’identità di fede non va usato come un’arma o una trincea per convincere, sottomettere e scontrarsi con chi professa un’altra fede. La “verità” in quanto tale, riconosciuta da diverse credenze nella persona di Dio, per attributo unico di eternità, deve possedere ognuno di noi e ogni spiritualità. Pertanto pensare di possedere tale “verità” contraddice la persona del Creatore, riducendola a una caricatura creata a nostra immagine e somiglianza. I fondamentalismi religiosi sono purtroppo strumenti storici di infiniti mali e atrocità in “nome di Dio”.

7. Inclusione piuttosto che selezione. Includere chiunque nel nostro universo di esperienza spirituale è il modo per avvicinarlo affinché possa parteciparvi indipendentemente dalla sua provenienza. Quando scegliamo con chi preferiamo dialogare, compiamo un atto discriminatorio. La discriminazione per motivi di religione, che all’inizio può apparire solo come un esercizio selettivo inadeguato, sappiamo purtroppo con quale facilità possa diventare germe dei mali più atroci e persino di genocidi religiosi.

8. Alterità piuttosto che tolleranza. L’“altro” o “gli altri” sono sempre il motivo imprescindibile e i componenti indispensabili in un’esperienza che si vuole definirsi ecumenica. La tolleranza, che in apparenza può essere considerata un suo sinonimo, non è di fatto un termine adeguato. E questo perché si è soliti “tollerare” il diverso a partire da una posizione di potere, di dominio, e non di uguaglianza.

9. Scomodità piuttosto che confort. Dialogare comporta sempre uscire dalla nostra zona di confort, che molto spesso è limitata a quanti pensano, sentono, vivono e semplicemente sono come noi. Il dialogo ecumenico implica scomodità perché ci invita a uscire da quella zona per entrare in un territorio sconosciuto che può avere codici, concetti e strumenti di comunicazione di vita e di spiritualità molto diversi dai nostri.

10. Dubbi piuttosto che certezze. Se il dubbio è un amico inseparabile della fede, è anche un compagno inseparabile del cammino ecumenico. Le certezze che spesso si costruiscono come barriere nell’ascolto dell’altro e il timore di introdurre sani dubbi nella nostra visione non ci aiutano. Benvenuto il dubbio benedetto che ci renderà pellegrini sempre migliori nel meraviglioso percorso dell’incontro ecumenico.

di Marcelo Figueroa