· Città del Vaticano ·

L’opportunità di riscoprire la preghiera comune

Una Pasqua nuova

Vincent Van Gogh, «La camera di Arles» (1888, particolare)
28 marzo 2020

A quale Pasqua ci stiamo preparando? Da alcuni giorni non circola più sottobanco: la domanda è diventata comune, pubblica, sofferta. Dovrebbe essere quella di ogni anno, perché mai la ripetizione della festa può essere stanca e scontata. Le drammatiche circostanze che hanno rapidamente avvolto larga parte dell’umanità ci strappano tuttavia dalle aree di comfort e impongono interrogativi radicali, ma forse salutari. Quasi il nuovo irrompa già, nell’ora più buia: Pasqua che viene a prenderci in condizione di esodo, strappati all’oppressione, ma ancora nel guado, col mare a destra a sinistra e sopra e sotto, dovendo credere che non si chiuderà prima di averlo tutti attraversato. Come vivere un memoriale? In un Occidente che abbiamo studiato e abitato nelle sue dinamiche di secolarizzazione, potrà la linfa ebraica nutrire, magari con la voce del più piccolo di casa, la domanda sulla notte così diversa da tutte le altre notti?

Il cristianesimo — sono in molti ad averlo osservato negli ultimi giorni — si trova davanti a una sfida domestica. Alle Chiese si prospettano, infatti, molteplici possibilità. Da diverse settimane, ad esempio, un grande supporto alla preghiera e al rapporto tra fedeli e Parola viene dai social-media più diversi. Immaginare una settimana santa in cui ognuno, da casa, facilmente si colleghi alla propria parrocchia o al vescovo e veda così parzialmente ricostituirsi l’unità coi fratelli è una buona possibilità, in altre epoche impensabile. Andrà dunque così, in molti casi, e questo — non ne abbiamo dubbi — aiuterà, consolerà: sarà esperienza reale e non virtuale, renderà tutt’altro che “a porte chiuse” ciò che materialmente si starà svolgendo là dove i pastori celebrano i misteri. Eppure, è legittimo il presentimento che questo possa non bastare. O, almeno, non esaurire le potenzialità del momento.

È vero: la costrizione tra quattro mura non è automaticamente riscoperta dei legami familiari; le case in cui la fede non è condivisa o avvertita da tutti con la medesima intensità sono maggioranza; le persone che vivono sole sempre più numerose. Ciò nonostante, un linguaggio mai inteso può essere avvertito e dei gesti mai osati non è escluso diventino plausibili: le prove scuotono, fanno vibrare le fondamenta. Il “memoriale” domestico ha dalla sua una strana laicità: non odora di sacrestia, tocca i fondamentali dell’umanità comune. Include e non esclude, attivando in ciascuno un immaginario sepolto che ha l’energia dell’infanzia, il sapore dei cibi elementari, il richiamo a generazioni passate. Agli antipodi del “non possiamo non dirci cristiani”, la via del celebrare in casa, custodita nei secoli da Israele, rende contemporanei a ogni membro della famiglia misteri realmente salvifici. Salvezza per ciascuno, ognuno al suo passo. Vogliamo credere, insomma, che questa Pasqua rimarrà nella memoria dei nostri bambini perché avranno guardato il vescovo in tv e il parroco su un tablet, o perché avranno compiuto con i propri genitori dei gesti nuovi e di particolare eloquenza?

Senza lontanamente voler imbrigliare la fantasia, ecco allora un possibile scenario di cattolicesimo domestico, che attivi la ricerca di ciò che resti anche oltre l’emergenza. Non nascondiamoci, infatti, che siamo disabituati alla preghiera comune e che le celebrazioni del Triduo pasquale, cuore dell’anno liturgico, non sono avvertite come determinanti da larga parte dei fedeli. E se ora qualcosa si rimettesse in moto dall’interno di alcune o di molte case? È una possibilità che lasciano almeno intravvedere gli elementi chiave della liturgia stessa, che quest’anno ci induce a riscoprire nella loro più elementare loquacità.

Il giovedì santo, ad esempio, i segni forti della vita di Cristo potrebbero svilupparsi attorno alla tavola, all’ora di cena. Immaginiamo che si raduni l’intera famiglia, ma che anche chi vive solo prepari la tavola con una certa importanza. Dopo una breve introduzione, che comporti una sorta di saluto, o di abbraccio di pace tra i presenti, la preghiera potrebbe avviarsi con la lettura dei primi versetti di Giovanni 13, alla quale far seguire, se le circostanze di casa lo consentono, la lavanda dei piedi reciproca tra gli sposi e poi dei figli, piuttosto che ciascuno del suo vicino. Sarebbe un gesto estremo, certo da non imporre, ma che non è affatto escluso trovi diverse famiglie predisposte. Tralasciabile, certo, oppure — mantenendo il segno di brocca e catino — sostituibile con un reciproco lavarsi le mani. La vera e propria cena potrebbe poi avviarsi, anche per le persone sole, con una preghiera di benedizione della mensa — «Benedetto sei tu Signore» — che abbia al suo interno qualche parola memoriale dell’ultima cena — «In questa notte in cui...». Al centro della tavola meriterebbe di trovarsi un unico grande pane, invece di molti panini, acquistato o preparato in casa durante la giornata. Dopo la benedizione, un membro della famiglia potrebbe spezzare l’unico pane e distribuirne un pezzo a tutti, senza nulla dire, ma dando spessore simbolico al gesto. Quindi la cena proseguirebbe nella consueta e se possibile più intensa convivialità.

Il venerdì santo è di solito in Italia un giorno lavorativo. Quest’anno tutto sarà diverso. Saremo fermi, a casa, con molte notizie di dolore e di morte da interiorizzare. Una grande sete di senso, tra domande che ribollono, ansia da governare, ferite da curare. Vale la pena di creare un momento di particolare raccoglimento, in ogni famiglia, magari nell’ora in cui «si fece buio su tutta la terra». Si potrebbe prevedere che nel primo pomeriggio le persiane vengano socchiuse e le tapparelle leggermente abbassate, siano spente anche le luci e ogni altro strumento tecnologico, così che per circa mezz’ora tutto sia avvolto da un grande silenzio. Alle tre il suono delle campane annuncia la morte di Cristo e fa convergere attorno a un crocifisso, là dove in casa è appeso, oppure appoggiato sul tavolo del soggiorno o del tinello. Andrebbe letta la dodicesima stazione della Via crucis, o un salmo — «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» — o la relativa pericope evangelica. Si potrebbe quindi chiedere a ogni membro della famiglia di baciare con delicatezza e intensità il crocifisso, quindi leggere la grande preghiera universale prevista dalla liturgia della passione, o un suo adattamento, che consenta di sentire il mondo presente, i sofferenti ricordati, i defunti affidati.

Infine la notte del sabato santo, la fine di ogni notte. Sebbene la veglia pasquale sia irriproducibile nella sua forza, è molto importante che la tenebra così profonda che ha avvolto la vita collettiva sia attraversata da segni che interrompano la notte. Molto semplicemente, sarebbe bello nel buio e nel silenzio più profondo, a un’unica ora, tutte le campane della diocesi suonassero a festa per diversi minuti, annunciando la risurrezione. In quel momento tutti potrebbero accendere almeno un lume da mettere al davanzale delle proprie finestre. Papa Francesco ricordava in una sua catechesi un gesto popolare significativo e molto adatto a una preghiera domestica: «In tanti Paesi — qui in Italia e anche nella mia patria — c’è l’abitudine che quando il giorno di Pasqua si sentono, si ascoltano le campane, le mamme, le nonne, portano i bambini a lavarsi gli occhi con l’acqua, con l’acqua della vita, come segno per poter vedere le cose di Gesù, le cose nuove».

La mattina di Pasqua, poi, donne della risurrezione potrebbero diventare mamme e figlie, che rendano bella la casa con dei fiori, là dove possono essere raccolti. La forza di vita che scorreva tra il maestro di Nazareth e le sue discepole, il rapporto privilegiato tra vangelo e femminilità, la cura della Chiesa-madre si avvertiranno più facilmente nei segni domestici che nelle liturgie codificate. E se a tavola tornassero — anche con una torta — latte e miele che secondo la Tradizione apostolica venivano offerti la notte di Pasqua ai neo-battezzati, perché assaporassero la dolcezza della vita nuova? Si potrebbe continuare a lungo e spingerci a immaginare gesti audaci, che colleghino almeno idealmente una casa all’altra e tutte nell’unica Chiesa: ad esempio, dove è possibile, che i preti e i diaconi, indossando i paramenti bianchi della festa, escano dalle chiese e camminino, il giorno di Pasqua o nell’ottava, almeno per le vie più abitate della propria parrocchia benedicendo dalla strada le case con l’acqua della veglia. Il punto — è evidente — non starebbe più nel loro gesto, ma in ciò che per loro tramite Dio va benedicendo: la vita nuova rimessa in circolo tra i molti “due o tre” riuniti nel nome di Gesù. Un rovesciamento, insomma, del convenire consueto, che renda non meno efficace e forse più credibile il nostro “risorgere con Lui”. Un giorno, come ancora non imbarazza in Oriente, potremmo arrivare a salutarci anche in Occidente con l’annuncio: «Cristo è risorto!».

di Sergio Massironi